Le pagine della memoria storica
a cura di
Monsignor Luigi Volpi
Scrivevo nel 1999, nella introduzione al libretto "La Parrocchia
di San Pietro in Abbiategrasso, passato, presente, futuro": " … ci sarebbero
tante altre cose da far conoscere … " e mettevo tra parentesi " … non è detto
che non debba riprendere a stendere qualche nota in avvenire ".
Adesso mi sembra che sia venuto il tempo dì farlo.
Questo potrebbe fare da corollario o appendice a quanto gia
pubblicato negli anni 1993-1999.
La finalità è sempre la medesima: far conoscere sempre più le
radici di questa nostra Parrocchia, per amarla sempre più e trasmettere alle
nuove generazioni quella passione, che ha animato i nostri padri nei secoli
passati, per testimoniare il Vangelo in un contesto storico-sociale sempre nuovo
e sempre fedele a Cristo.
Proprio con un pensiero rivolto ai "Padri nella Fede" comincio
col pubblicare, aggiornata, la serie cronologica dei Parroci della nostra
Chiesa.
Uberto Benzio Canonico di Corbetta.
Nel 1340 si stabilisce presso la chiesa di San Pietro.
Ambrogio Orio Sec. XV
Francesco Sinibissi Sec. XVI
Giovanni De Vecchi 1578 - 1590 (eletto da San
Carlo)
Cesare Stropino 1590 - 1604
Francesco Isacco 1604 - 1610
Giovanni B. Pavese 1611 - 1654
Carlo A. Croce 1654 - 1681
Francesco Baldese 1682 - 1705
Francesco Azimonti 1705 - 1737
Tomaso Azimonti 1737 - 1773
Giacomo Crosti 1773 - 1798
Carlo Crippa 1799 - 1803
(eletto Prevosto di Primaluna)
Giuseppe Rodriguez 1803 - 1825 (eletto
Prevosto di Corbetta)
Giovanni Rota 1826 - 1833
Fedele Perego 1834 - 1855
Giovanni Bernacchi 1856 - 1869
Giuseppe Trezzi 1869 - 1888
Ottavio Paronzini 1889 - 1942
Ercole Tettamanzi 1942 - 1969
Luigi Volpi 1969 - 1999
Giuseppe Colombo 1999 - “ad multos annos”
Il primo della serie dei parroci di S. Pietro fu Uberto Benzio.
A essere precisi il titolo esatto che qualificava un presbitero
(prete) ad esercitare il ministero in un determinato territorio era quello di
"rettore" ossia sacerdote responsabile di una chiesa.
Accanto alla chiesa battesimale, cioè una chiesa con il fonte per
il battesimo, c'era il capo-pieve o prevosto, che per noi era a Corbetta,
assistito da altri presbiteri, che nei giorni festivi celebravano la Messa nelle
varie chiese oracolari, o oratori, sorte in seguito nelle campagne circostanti.
Nella primitiva chiesa dedicata a S. Pietro venne a stabilirsi in
modo fisso nel 1340 il canonico Uberto Benzio, il quale, col permesso della
Curia di Milano, associò a sè un altro sacerdote destinato ad officiare nella
chiesa di S. Maria Vecchia.
Il termine "parroco" nel senso moderno si fa risalire al Concilio
di Trento (sec. XVI).
A partire da quell'epoca ci furono quindi due rettori o parroci,
uno a S. Pietro fuori le mura, il secondo a S. Maria entro la cinta delle mura.
Erano i cosiddetti parroci "porzionari", perchè ciascuno aveva una porzione
dell'unico territorio parrocchiale. Questo era consigliato o per l’eccessivo
numero dei fedeli, o per la distanza dalla chiesa.
Nasce il desiderio di sapere dove fosse ubicata S. Maria antiqua.
Ho gia detto che era all'interno delle mura e certamente sorgeva dov'è
attualmente la sconsacrata chiesa di S. Maria. Infatti quella che è arrivata
fino a noi risale al 1408, come si rileva da una formella in cotto posta in una
rientranza del campanile.
La citazione più antica di S. Maria Vecchia la troviamo nel Liber
Sanctorum di Goffredo da Bussero, un umile cappellano di Rovello che, scrivendo
alla fine del XIII secolo, ci ha tramandato le notizie delle chiese in Milano e
nella campagna.
Quando nel 1365 si costruì S. Maria Nuova, quella vecchia fu
abbandonata. Ma sulla stessa area si costruirà, come detto, una nuova chiesa,
che nel 1593 sarà affidata alle monache di S. Maria Rosa, che officiarono nella
chiesa fino al 1784 quando il monastero fu soppresso e la proprietà passò a
privati.
Nel secolo XIII sempre secondo l'elenco del libro di Goffredo da
Bussero, esistevano nel territorio di Abbiategrasso, oltre alla chiesa di S.
Pietro e di S. Maria, anche S.Eusebio, S.Martino, S.Donato, nella omonima
cascina, e SS.Cipriano e Cornelio a Mendosio.
S.Eusebio, posta fuori le mura del borgo, verso il sobborgo di S.
Pietro, è detta, nella Visita Pastorale di S.Carlo, "chiesa antichissima"
e "quasi completamente rovinata”. Era sede della confraternita dei Santi Dodici
Apostoli; vi si conservava la statua della Madonna delle Grazie, che poi è
passata nella chiesa di S. Pietro e in seguito vi approdò l'urna di S.Restituta,
che, alla soppressione, venne destinata all'oratorio del palazzo Arconati e
quando anche questo venne soppresso, l'urna della santa finì alla prepositurale
di S. Maria.
Durante il rifacimento della parrocchiale di S. Pietro
(1753-1763) le funzioni religiose si svolgevano nella chiesa di S.Eusebio.
Questa non si può dire che sia completamente scomparsa, perchè
alcune vestigia o muri perimetrali si possono ancora osservare in un cortile di
corso S. Pietro.
Per scoprire qualche notizia riguardante la parrocchia di S.
Pietro, tengo ancora come punto di riferimento i nomi dei parroci che si sono
avvicendati lungo i secoli.
Il nome che ho trovato dopo quello di Uberto Benzio, di cui ho
parlato nella puntata precedente, è del sacerdote Alberto Marangonelli, parroco
porzionario, che il 12 novembre del 1500, aveva fatto erigere la cappellania di
S. Maria del Gesù nella chiesa di S. Maria Nuova.
Il Marangonelli deve essere morto in quell'anno, o poco dopo,
perchè il primo dicembre 1502 venne eletto parroco porzionario il sacerdote
Ambrogio Orio. Questi apparteneva al casato dei Doria, che viene indicato di
volta in volta con: "De Hauria, Doria, De Horiis, Orio.
L'Orio alla nomina di parroco, godeva già della cappellania di S.
Pietro, fondata nella chiesa di S. Pietro. La sua morte deve essere avvenuta nel
1520 o poco prima, perchè nel novembre del 1520, in adempimento di un suo legato
testamentario, venne eretta la cappellania di S. Maria del Sepolcro nella chiesa
di S. Maria Nuova.
E' forse utile dire una parola sulle cappellanie.
Era, questa, una forma di suffragio per i defunti di una famiglia
che costruiva una cappella laterale nella chiesa con il diritto del sepolcro
gentilizio e fornita di una dote consistente in case o terreni il cui reddito
serviva per la celebrazione di un determinato numero di Ss. Messe.
Il titolare della cappellania, che il più delle volte apparteneva
alla famiglia dei fondatori, era tenuto ogni anno a soddisfare a tale obbligo.
Come si può constatare era una forma di finanziamento per i sacerdoti, allora
tanto numerosi, prima che si inventasse l'Istituto per il Sostentamento del
Clero. (vedi 8/1000).
Non deve neanche meravigliare la fondazione di tale cappellanie
nella chiesa di S. Maria da parte di rettori di S. Pietro, perchè S. Maria Nuova
faceva pur sempre parte del territorio parrocchiale di S. Pietro e poi si
trattava di una costruzione nuova (1365), grande e bella per cui aveva attratto
a sè quasi tutte le funzioni liturgiche.
Anche nella chiesa di S. Pietro esistevano delle cappellanie. Il
12 ottobre del 1525 diventa titolare di S. Maria della Neve, cappellania eretta
dal Pio Luogo della Misericordia, il sacerdote Francesco Sinibissi, che,
precedentemente,il 2 luglio 1524, i "vicini" avevano eletto parroco di S.
Pietro. I vicini erano i patroni della chiesa che avevano il diritto di nominare
il rettore-parroco.
Con S. Carlo scomparirà per sempre tale diritto. Anche il
Sinibissi apparteneva a una famiglia facoltosa di proprietari terrieri. I
Sinibissi avevano anche il patronato della cappellania denominata S. Maria della
Cura eretta nella chiesa di S. Pietro. Titolare di questa cappellania era dal
1502 il sacerdote Giacomo Aliprandi e, naturalmente" alla morte di questi
avvenuta nel 1524, fu eletto Francesco Sinibissi.
La scelta del Sinibissi a tutti questi benefici aveva suscitato
tanti malumori nella Comunità, anche perché lo si accusava di avere alienato a
privati alcuni beni ecclesiastici. Infatti un documento del 4 dicembre 1532
parla di una permuta di beni tra i fratelli Sinibissi e i fratelli Legnano. A
suo carico ci furono dei processi che coinvolsero anche i suoi eredi in
procedimenti che durarono per quasi tutto il secolo decimosesto.
La sua memoria é arrivata a noi più come proprietario della
cascina Ginibissa che come parroco. Alla Ginibissa, su una parete esterna ha
lasciato in un affresco il suo ritratto, dove lo si vede con S. Francesco in
adorazione davanti alla Madonna, e nella parte inferiore del dipinto si vedono,
a mezzo busto, le figure dei genitori.
In seguito alla morte di Don Giovanni Tettamanzi, che tanto bene
ha operato nella nostra parrocchia, vorrei fare l'elenco dei coadiutori che si
sono susseguiti in questi ultimi anni in S. Pietro.
Don DAVIDE BOSETTI venne qui nel 1943 andò parroco a Cisliano e
poi a Sedriano
Don GIOVANNI TETTAMANZI, venne qui nel 1945 e vi rimase fino al
1988
Don CARLO TRADATI di Milano, venne qui nel 1956 e vi rimase fino
al 1969
Don LUIGI ALBERIO di Rovello renne qui nel 1969 e vi rimase fino
al 1983
Don ANGELO CAZZANIGA venne qui nel 1974 e vi rimase fino al 198o
Don LUCIANO GARLAPPI di Novate venne qui nel 1981 e vi rimase
fino al 1992
Don PIERANGELO PIGLIAFREDDO di Bareggio dal 1989 al 1993
Don CLAUDIO MAGGIONI di Oreno dal 1992 al 1997
Don CARLO PIROTTA di Besana dal 1993 al 2005
Don EGIDIO CORBETTA di Carugo dal 1997:
AUGURI PER IL DECENNIO !
* * *
Riguardo all'elenco pubblicato il mese scorso circa i sacerdoti
che hanno esercitato i1 ministero in S. Pietro come coadiutori o assistenti
dell'Oratorio, mi è stato giustamente osservato di avere tralasciato alcuni
nominativi. Volentieri accetto l'osservazione, ringrazio e
approfitto per ripartire da lontano.
Alla nomina del curato don Ottavio Paronzini era, da quasi un
anno, Vicario spirituale di S. Pietro il coadiutore don Vincenzo Sormani. Questi
rimase a S. Pietro fino al 1895, quando fu nominato coadiutore canonico nella
chiesa sussidiaria di S. Pietro Celestino in parrocchia di S. Babila di Milano.
Scrive il Paronzini: "II 29 settembre 1889 il sacerdote don
Paolo Calderara, nato a Milano da famiglia abbiatense, ritiratosi dalla
coadiutoria di Lazzate, veniva, per rimettersi in salute, a stabilirsi in S.
Pietro, assumendo la messa festiva di S. Rocco sulla Riva e prestandosi
volonterosamente negli impegni della parrocchia. Ottimo sacerdote, fornito di
buon censo, si occupò diligentemente dei sacri arredi, provvide di propria borsa
un tappeto intiero per 1'altar maggiore, scrisse un savio regolamento per S.
Rocco. Dopo due anni, passò Rettore del Santuario di S. Maria delle Vittorie in
Milano, lasciando qui edificante memoria del suo zelo e della sua virtù". Voglio
ricordare anche che, in morte, ha lasciato a S. Pietro il suo prezioso
calice, che si usa ancora nelle solennità. Al coadiutore supplente
Calderara, nel 1892 successe il prete novello don Giovanni Panighi, che nel
luglio del 1894 fu trasferito a Lissone e fu sostituito da don Eugenio
Chiaravalle originario di Casorate Sempione.
Dopo la partenza di don Sormani annota sempre il Paronzini:
"Provvidenzialmente da circa due anni era venuto a stabilirsi nella sua
parrocchia nativa di S. Pietro il sac. don Antonio Gioletta. Era stato parecchi
anni assistente della Pia Casa Incurabili, quando questa aveva una sezione
all'ex-Convento dell'Annunciata. Quindi dopo varie vicarie, era passato parroco
di Cassago Brianza, il Cassiacum di S. Agostino. Supplì egli alla messa festiva
per don Sormani, finchè fu destinato per S. Pietro il novello sacerdote don
Giuseppe Reina di Saronno. Don Gioletta moriva qui nel 1900 improvvisamente,
lasciando in eredità la sua casa a due nipoti, suore di Maria Bambina, per
Oratorio festivo femminile per le ragazze di S. Pietro, dopo però la morte della
sorella Carolina e della nipote Adele".
Nel 1899 don Giuseppe Reina è trasferito all'Oratorio di Vaprio
D'Adda. E a S. Pietro arriva don Carlo Cozzi, nativo di Bubbiano.
Di don Carlo Cozzi, don Paronzini scrive: "Dopo alcun tempo
introduceva l'uso della bcicletta, ma il Cardinal (Ferrari) la proibiva quasi
subito, nonostante il parroco avesse pregato di tollerarla pel reale vantaggio
di servizio".
Sempre a riguardo di don Carlo Cozzi è utile richiamare quanto
riportato sulla rivista "Habiate" N° 3, pag. 101
Don Carlo Cozzi fu coadiutore della parrocchia di S. Pietro
ai primi del Novecento. Appassionato naturalista, studiò i caratteri
della flora e della fauna abbiatensi pucando poi alcune monografie e numerosi
articoli su riviste specializzate. Nel 1905 diede alle stampe questo
curioso dizionarietto, di cui ci è nota una sola copia conservata presso
la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano. Il lettore attento scoprirà
che queste poche pagine, al di là dell'interesse scientifico, si
prestano a più letture: ecologica (quante specie ora rare sono
definite comunissime!), linguistica. (la maggior parte dei vocaboli
dialettali elencati è caduta in disuso), etnica (lo studio è arricchito
dalla continua citazione di credenze ed abitudini popolari).
Il titolo di questo opuscoletto che si presenta nella stessa
veste ed edito cogli stessi tipi di un altro lavoro analogo sulle piante e i
fiori, rimasto interrotto, come era da prevedere, per ragioni
imprescindibili d'ordine economico, afferma assai chiaramente lo scopo
che mi sono proposto di raggiungere nel pubblicarlo.
Non è adunque per nessun motivo nè un piccolo manuale nè un
trattatello di zoologia in genere, dei quali ve n'ha una colluvie;
e neppure un lavoro prettamente scientifico di faunistica nostrale, per il
quale occorrerebbe un materiale di osservazioni molto maggiore di quello che
possiedo e non gioverebbe punto al nostro popolo, digiuno come è delle
cognizioni preliminari davvero indispensabili; ma un modo breve e
facile, una chiave, un per me dizionario se così vi piace chiamarlo,
onde riesca possibile di rintracciare colla scorta del nome vernacolo, il
nome italiano e tecnico dei nostri animali più comuni. E dico più comuni
quantunque, come è facile avvertire, non ho potuto tener conto che
dei vertebrati, cioè dei mammiferi, degli uccelli, dei
rettili, anfibi e pesci, troppo essendo le specie degli animali
inferiori che cadrebbero sotto un medesimo vocabolo.
In via d'esempio : il vernacolo ragn comprenderebbe
parecchie centinaia di ragni, i quali pur vivono nella nostra cittadina e
suoi dintorni; al nome di lumàga dovrei parimenti far seguire non
poche entità diverse per caratteri e per costumi; ai nomi volgari di
parpàia, parpaín, parpaiòn, corrispondono tutti i nostri
lepidotteri, tanto diurni, che crepuscolari o notturni;
senza dire di moltissime altre voci vernacole cdn, burdóc, cagnótt,
cagnuttín, càmula, bigàtt, bigdttin, musca, musca
cavallina, muscón, muschín, gatta pelúsa, vespa,
matalón, martinéi, furníga, furnigón, cavalletta,
gaína grisa, spusetta o spusa spusetta, spusettón, grigrí,
campé; scivattín, bíss, murné,
pioeucc pullín, tavdn, tavanín, ecc. ,
ecc. , nella gran classe degli insetti, che se non hanno sempre un
significato multiforme, si prestano però sempre o quasi sempre a creare
equivoci.
Pochi o meglio pochissimi esseri, restando nel campo degli
invertebrati, mi pare abbiano un termine proprio, riferibile ad una
specie sola e tra questi ricordo ad abundantiam: furbesetta,
garavàsg, galavrón, saltamartin, scímas, scímas
selvàdig, sansósra, piiras, vacchetta, foeug salvàdig,
cornaboeu, liisiiroeu, ciiicía o siiscia, mustardina, scigda, millapé, zùcchetta, ma evidentemente per non far torto
ai più ho creduto
bene di escludere anche i meno.
E così pure non ho voluto occuparmi di quelle voci vernacole che
richiamano gli animali domestici, perchè anche questo esorbita non poco
dal mio intento particolare. Melius est distinguere quam confundere;
importava adunque in base a un tal principio di contenermi entro un ambito più
ristretto. Sugli animali indigeni poi appartenenti, come già dissi,
alle quattro classi ricordate, ho cercato per quanto mi fu possibile di
dare l'enumerazione completa; ma ognuno capirà che anche qui per
evitare le incertezze, specialmente negli uccelli, abbia dovuto
vagliare molti dei nomi dialettali
e scartarne anche qualcuno che non mi dava sufficiente
affidamento di una determinazione sicura e precisa.
Per renderne inoltre meno monotona e pesante la lettura e per
supplire in certo qual modo al difetto della descrizione, affatto inutile,
perchè si può vedere su cento libri e che avrebbe d'altra parte aumentato di
troppo la mole di questo opuscolo, vi ho inserito qua e là alcune delle
varie leggende superstiziose e ridicole che il buon popolo, beato lui,
ripete a iosa e delle quali mostra di esserne talvolta persuaso e convinto.
Nel corso delle mie escursioncelle fatte, così a tempo
perso, attraverso i campi, in cerca di qualche pianta o di qualche
animale, mi è accaduto e non di rado d'essere colto in flagrante,
mentre stavo disponendo e riordinando le cose raccolte, anche da chi non
vestiva il fustagno. Le domande che mi si rivolgevano erano presso a poco
eternamente le stesse : che ne fà di quell'erbaccia? per cosa serve?
che le giovano queste inezie? ed erano accompagnate di solito da un sorriso di
incredulità e di compatimento, il quale se, nell'intenzione del mio
interlocutore, poteva forse essere una lenzioncina per me, finiva a
diventare senza forse una buona lezione anche per lui. Questo insomma per
dire che malgrado l'utilità pratica che ponno avere in ogni genere di persone le
nozioni più importanti della storia naturale, io non sono ingenuo e non mi
illudo, anzi. . .
Mi auguro ad ogni modo che i ragazzi delle scuole elementari e
tecniche, che i cacciatori, i pescatori e i. . . dilettanti
dello sport vogliano approfittare anche di queste poche pagine che sono,
lo ripeto, di per sè ben poca cosa. E finisco colle parole di
Massimo d'Azeglio: io feci per far bene. . . se in veci feci
male, pensi il lettore che anche a far male, costa fatica e si
incontra difficoltà.
Don Cozzi rimase a S. Pietro fino al 19o8, quando fu nominato
cappellano a S. Macario.
Nel frattempo però, il curato Paronzini nel 1898 scrive sul
cronicon: "Don Camillo Annovazzi nato nella parrocchia di S. Pietro,
arrivava qui come coadiutore„poco prima della inaugurazione della chiesa
restaurata. Poichè la copertura della cupola con lastre di rame, eseguita dal
padre suo, ing. Annovazzi, era stata male compiuta e dava acqua in chiesa, egli
con rilevante sua spesa, provvedeva alla riparazione. Sull'altare maggiore
faceva collocare la bella statua del S. Cuore e, dinanzi al tabernacolo un
bellissimo conopeo serico a ricami d'oro".
A don Cozzi subentrò don Benedetto Bonati, nativo di Zelo
Surrigone.
Nel 1933 don Paronzini scrive: "11 coadiutore don Benedetto
Bonati, dopo 24 anni di operosa permanenza tra noi, è nominato parroco di
Albairate. A sostituirlo è destinato don Luigi Viganò di Lissone".
Don Luigi Viganò fu praticamente il primo assistente
dell'Oratorio maschile, che si era ricavato da un pezzo della vigna del
parroco lungo la via Curioni.
Intanto era arrivato in parrocchia come coadiutore don Gaetano
Seveso incaricato di assistere l'oratorio femminile di via Toti.
Alla partenza di don Viganò, venne destinato a S. Pietro il prete
novello don Antonio Tosi, ordinato nel giugno del 1941. Il momento non era
felice: nel 1940 l'Italia era entrata in guerra, il parroco
Paronzini era ormai verso la fine dei suoi giorni, per cui quando il 15 maggio
del 1942 muore, viene eletto parroco Don Ercole Tettamanzi e don Tosi viene
invitato a rimpiazzare il posto lasciato libero da don Tettamanzi nella
parrocchia di Corsico.
Il parroco assume la direzione dell'Oratorio maschile finchè nel
luglio del 1943 viene nominato coadiutore il prete novello don Davide Bosetti.
Il parroco nel cronicon fa questa osservazione: "Fu poco fortunato i primi
mesi perchè l'Oratorio fu occupato dai sinistrati di Milano i qual i, quindi,
impedivano lo svolgersi regolare della vita dell'Oratorio".
Va tenuto anche presente che i giovani erano al fronte.
Dicembre 1943, dal cronicon: "Dopo ormai quattro anni di
guerra, correva insistente la voce popolare che tra la festa dell'Immacolata e
la festa di Natale la guerra sarebbe terminata; tanto più prese credito
questa cosa perchè nei mesi di settembre e ottobre si videro molte piante
rifiorire come se si fosse in primavera e questo fatto venne interpretato come
un buon preannuncio del Cielo della fine sospirata; invece la nostra
parrocchia era destinata a trascorrere le feste del S. Natale, in modo più
triste per causa della incarcerazione di don Gaetano Seveso nostro coadiutore.
La sera del giorno 22 di dicembre, terminato ormai il giro per la Benedizione
delle case, due individui in abito borghese appartenenti alla S.S. tedesca
si presentano in casa del coadiutore don Gaetano Seveso, gli chiesero conto di
una certa predica fatta qualche mese prima e lo dichiararono in arresto e lo
condussero via con un'automobile; il parroco chiamato, che tentò di
dire qualche parola in difesa del coadiutore venne invitato a tacere colla
minaccia di condur via lui pure. Si seppe con certezza che la denuncia era stata
fatta dal colonnello Bianchini, comandante del distretto di Milano, sfollato ad
Abbiategrasso; ed i capi di accusa erano che don Gaetano Seveso in predica
avrebbe accennato al fatto che nell'altra guerra i Tedeschi entrando nel Belgio
avrebbero tagliato le mani a dei bambini; avrebbe detto alla gente di
nascondere oro e gioielli perchè i Tedeschi li porterebbero via;
avrebbe detto anche di dare legnate ai Tedeschi e fascisti che si presentano a
chiedere roba; e da ultimo avrebbe detto anche che ammazzare un tedesco è
la via più facile e sicura per andare in paradiso. Naturalmente tutto
risultò falso e dopo 25 giorni di prigione a S. Vittore a Milano, uscì libero il
17 gennaio 1944 e venne accolto con gran festosità da tutta la popolazione che
durante tutto il tempo della sua lontananza aveva tanto pregato. Poco dopo si
scoprì che il colonnello Bianchìni era un ipocrita che gia in altre occasioni
aveva accusato e imbrogliato altri ed aveva tentato di imbrogliare il Governo
stesso, ragion per cui venne destituito del posto, privato del grado e messo
sotto processo militare".
Nel luglio del 1949 il coadiutore don Gaetano Seveso viene
nominato parroco di Rozzano.
Nel giugno 1945 viene a S. Pietro come coadiutore il sacerdote
novello Don Giovanni Tettamanzi, nipote del parroco. Lascia S. Pietro nel 1988 e
muore al paese nativo di Veniano nel 2007.
Nel giugno del 1954 viene destinato come coadiutore don Gianni
Marcandalli, ma dopo solo 12 mesi lascia per andare missionario di Rho. A
sostituirlo venne qui da Cernusco Sul Naviglio il sacerdote Don Carlo Tradati,
nativo di Milano. Sarà trasferito parroco a Borgo Est di S. Giuliano Milanese
nel 1969.
Intanto don Davide Bosetti che da 13 anni ormai era qui a S.
Pietro negli ultimi giorni del 1957 è nominato parroco di Cisliano.
Don Gianni Tavecchia gia coadiutore nella prepositurale di
Gallarate nel 1958 viene destinato a S. Pietro, da dove partirà come parroco di
Maccagno Inferiore nel 1964.
Qualche mese dopo la partenza di Don Tavecchia, venne coadiutore
in parrocchia Don Agostino Meroni da Misinto, ma dopo solo 7 mesi andò parroco a
Baruccana di Seveso.
Intanto nel 1951 si era iniziata la costruzione del nuovo
Oratorio S. Giovanni Bosco, con relativa abitazione per l'assistente.
Il primo ad abitarvi fu don Tradati a cui successe nel 1969 Don
Luigi Alberio, prete novello di Rovello Porro. Rimase in Oratorio maschile
fino al 1981 per poi passare all'Oratorio femminile fino al 1983.
Nel frattempo venne qui nel 1974 don Angelo Cazzaniga di Rosate e
vi rimase fino al 1980 quando fu nominato parroco di Moncucco.
A sostituire don Alberio venne nel 1981 don Luciano Garlappi di
Novate M. e rimase fino al 1992 quando scelse di andare missionario "Fidei
Donum".
Come coadiutore di parrocchia venne nel 1989 Don Piero
Pigliafreddo di Bareggio: e rimase in S. Pietro fino al 1993 quando fu nominato
parroco al villaggio Brollo.
Al posto di don Luciano venne Don Claudio Maggioni nativo di
Oreno e gia coadiutore nella parrocchia di S. Giuseppe in Sesto San Giovanni.
Partì da S. Pietro nel 1997. Come coadiutore di parrocchia venne da
Inveruno nel 1993 Don Carlo Pirotta che rimase a S. Pietro fino al 2005 quando
fu nominato parroco della chiesa dello Spirito Santo in Corsico.
E venne la volta di Don Egidio Corbetta di Carugo, approdato a S.
Pietro nel 1997, per cui sono dieci anni che è qui tra noi e gli facciamo
tanti auguri ancora per il suo decennio.
In riferimento all'elenco dei sacerdoti che hanno esercitato il
ministero in S. Pietro qualcuno potrebbe pensare che tutto quell'andirivieni di
coadiutori fosse determinato da situazioni difficili presenti in parrocchia.
Si deve invece tenere presente che la nomina a parroco di don
Ottavio Paronzini, giovane di 28 anni, aveva portato una ventata di novità, la
parrocchia poi, allora era molto vasta, con 170 cascine, il rione di S. Rocco
alla Darsena e l'assistenza dell'ospedale Costantino Cantù che muoveva allora i
primi passi.
Segno di questa vitalità erano anche le Confraternite, le
Associazioni e le Pie Unioni.
A proposito del Rione S. Rocco, soltanto nel 1970 l'arcivescovo
Colombo ha inviato a S. Pietro il sacerdote Don Eugenio Carsana proveniente
dalla parrocchia di S. Giuseppe in Sesto S. Giovanni con lo specifico incarico
di avviare la nuova parrocchia del S. Cuore che venne canonicamente eretta nel
1972, con territorio stralcialo dalla parrocchia di S. Pietro e da S. Maria
Nuova.
A proposito di luoghi di culto nelle cascine, bisogna tenere
presente che quando nel secolo XIII, in seguito alla bonifica della Valle del
Ticino sorsero le aziende agricole, costituite da abitazioni per i coloni,
stalle per le bestie, magazzini per il foraggio e i raccolti, il tutto accanto
ai campi da coltivare, gran parte della popolazione della parrocchia di S.
Pietro si stabilì in quelle località, dove si sentì il bisogno, data la
lontananza dalla chiesa, anche di luoghi di culto, destinati alla preghiera e
alla celebrazione della Messa festiva.
Un esempio di questo l'abbiamo alla cascina Remondata dove a
detta di mons. Ambrogio Palestra esisteva già un Oratorio elencato nel sec.
XIII. La costruzione però che si vede tuttora risale al 1755 e fu voluta
dalla signora Antonia Pusterla Marchesa Citterio. Nel 1756 il cardinale Giuseppe
Pozzobonelli in Visita Pastorale, ha visitato l'Oratorio appena costruito. In
questo oratorio si è celebrata la Messa festiva fin quasi la fine
dell'Ottocento. L'Oratorio fu dedicato alla B. V. Addolorata e parroco
dell'epoca era Tomaso Azzimonti sotto la cui cura parrocchiale avvenne la nuova
fabbrica della chiesa di S. Pietro.
Un altro esempio di oratorio campestre l'abbiamo nella "Gesa",
(Baraggia Chiesa) instrada Cassolnuovo. Si tratta di una costruzione tuttora
visibile nella parte esterna, sconsacrata all'inizio del Novecento. Anche
questa costruita per le esigenze religiose delle cascine vicine come cascina
Fontana Baraggia Roma e Baragetta. L'iniziativa venne presa dai
proprietari terrieri del luogo, gli Archìnto e si fece promotrice Camilla
Stampa, moglie del conte Filippo Archínto, che tra l'altro era fratello di
Giuseppe Archinto arcivescovo dì Milano dal 1699 al 1712.
La contessa Archinti, per tale scopo, rivolgeva una supplica alla
Curia di Milano, il parroco don Carlo Antonio Croce (1646-1681) avvalorava là
richiesta con là seguente lettera:
lettera del novembre 1661 :
« Nella visita fatta a giorni passati in questa Pieve di
Abbiategrasso è mea cura insieme partecipar a V. Ill. ma a bocca il bisogno ché
havevano molte anime di mia Cura habitanti alle Cassine nella Valle
d'Abbiategrasso sì per la quantità di quelle, come per la lontananza ché
di due o di tre miglia, e più ancora dalla comodità di sentir la messa
alle feste, et di frequentare la dottrina cristiana: à segno tale che non solo
ne tempi d'inverno e di pioggia, nevi e venti bona parte perdono la messa, ma
tutto l'anno non si vedono mai alla dottrina cristiana, mercé la
lontananza, dico che dopo haver fatto il viaggio per la messa il ritornarsene
alla dottrina cristiana, è a loro impossibile: Ill. mo
Signore l'esser quest'anime à me raccomandate da Dio come fece al
mio titolare e Protettore San Pietro con quelle parole "pasce oves meas, quas
sanguine meo redemi" e vedendo ogni giorno che molti di quelli non sanno le cose
necessarie alla sua salute, e a dirla con mio estremo dolore homeni
ch'hanno la testa e non sanno il Pater Noster e Credo; questo mi obbligo a
significare il tutto a Vs. Ill. ma come al Curato Zelantissimo di tutti li
Curati di questa Sua Diocesi, acciò cooperi sol Suo zelo et mezzi, a
soccorrere alla necessità di queste genti come farò anch'io col farli fare un
Oratorio pubblico nel mezo delle Cassine che saranno al numero di 40 Cassine per
farli poi celebrare una Mesa festiva et esercire la Dottrina Cristiana. A questo
effetto li Signori Deputati della terra di Abbiategrasso per istromento hanno
donato il sito per fabbricare detto Oratorio, con promessa di fare qualche
altra elemosina ». Il parroco ricorda poi la donazione degli Archinti di
400 soldi e così prosegue:
« Altri Signori particolari di Abbiategrasso hanno esibito
qualche elemosina per questo effetto. Resta solo che V. Ill. mo
conceda l'opportuna licenza di dar prencipio a quest'opera. . . e il tutto
si farà a honore a gloria di Dio e a beneficio di quelle povere anime. che
da lui furono redente, benché poveri, col suo pretiosissimo sangue.
. . ».
Come ho già detto sopra questa costruzione ha funzionato come
luogo di culto fino alla fine del 1800 ed è giunto fino a noi il toponimo.
Riguardo all'elenco pubblicato il mese scorso circa i sacerdoti
che hanno esercitato i1 ministero in S. Pietro come coadiutori o assistenti
dell'Oratorio, mi è stato giustamente osservato di avere tralasciato alcuni
nominativi. Volentieri accetto l'osservazione, ringrazio e approfitto per
ripartire da lontano.
Alla nomina del curato don Ottavio Paronzini era, da quasi un
anno, Vicario spirituale di S. Pietro il coadiutore don Vincenzo Sormani. Questi
rimase a S. Pietro fino al 1895, quando fu nominato coadiutore canonico nella
chiesa sussidiaria di S. Pietro Celestino in parrocchia di S. Babila di Milano.
Scrive il Paronzini: "II 29 settembre 1889 il sacerdote don
Paolo Calderara, nato a Milano da famiglia abbiatense, ritiratosi dalla
coadiutoria di Lazzate, veniva, per rimettersi in salute, a stabilirsi in S.
Pietro, assumendo la messa festiva di S. Rocco sulla Riva e prestandosi
volonterosamente negli impegni della parrocchia. Ottimo sacerdote, fornito di
buon censo, si occupò diligentemente dei sacri arredi, provvide di propria borsa
un tappeto intiero per 1'altar maggiore, scrisse un savio regolamento per S.
Rocco. Dopo due anni, passò Rettore del Santuario di S. Maria delle Vittorie in
Milano, lasciando qui edificante memoria del suo zelo e della sua virtù". Voglio
ricordare anche che, in morte, ha lasciato a S. Pietro il suo prezioso calice,
che si usa ancora nelle solennità. Al coadiutore supplente Calderara, nel 1892
successe il prete novello don Giovanni Panighi, che nel luglio del 1894 fu
trasferito a Lissone e fu sostituito da don Eugenio Chiaravalle originario di
Casorate Sempione.
Dopo la partenza di don Sormani annota sempre il Paronzini:
"Provvidenzialmente da circa due anni era venuto a stabilirsi nella sua
parrocchia nativa di S. Pietro il sac. don Antonio Gioletta. Era stato parecchi
anni assistente della Pia Casa Incurabili, quando questa aveva una sezione
all'ex-Convento dell'Annunciata. Quindi dopo varie vicarie, era passato parroco
di Cassago Brianza, il Cassiacum di S. Agostino. Supplì egli alla messa festiva
per don Sormani, finchè fu destinato per S. Pietro il novello sacerdote don
Giuseppe Reina di Saronno. Don Gioletta moriva qui nel 1900 improvvisamente,
lasciando in eredità la sua casa a due nipoti, suore di Maria Bambina, per
Oratorio festivo femminile per le ragazze di S. Pietro, dopo però la morte della
sorella Carolina e della nipote Adele".
Nel 1899 don Giuseppe Reina è trasferito all'Oratorio di Vaprio
D'Adda. E a S. Pietro arriva don Carlo Cozzi, nativo di Bubbiano.
Di don Carlo Cozzi, don Paronzini scrive: "Dopo alcun tempo
introduceva l'uso della bicicletta, ma il Cardinal (Ferrari) la proibiva quasi
subito, nonostante il parroco avesse pregato di tollerarla pel reale vantaggio
di servizio".
Sempre a riguardo di don Carlo Cozzi è utile richiamare quanto
riportato sulla rivista "Habiate" N° 3, pag. 101
Don Carlo Cozzi f u coadiutore della parrocchia di S. Pietro ai
primi del Novecento. Appassionato naturalista, studiò i caratteri della flora
e della fauna abbiatensi pubblicando poi alcune monografie e numerosi articoli
su riviste specializzate. Nel 1905 diede alle stampe questo curioso
dizionarietto, di cui ci è nota una sola copia conservata presso la Biblioteca
Nazionale Braidense di Milano. Il lettore attento scoprirà che queste poche
pagine, al di là dell'interesse scientifico, si prestano a più letture:
ecologica (quante specie ora rare sono definite comunissime!), linguistica.
(la maggior parte dei vocaboli dialettali elencati è caduta in disuso), etnica
(lo studio è arricchito dalla continua citazione di credenze ed abitudini
popolari).
Il titolo di questo opuscoletto che si presenta nella stessa
veste ed edito cogli stessi tipi di un altro lavoro analogo sulle piante e i
fiori, rimasto interrotto, come era da prevedere, per ragioni imprescindibili
d'ordine economico, afferma assai chiaramente lo scopo che mi sono proposto di
raggiungere nel pubblicarlo.
Non è adunque per nessun motivo nè un piccolo manuale nè un
trattatello di zoologia in genere, dei quali ve n'ha una colluvie; e neppure
un lavoro prettamente scientifico di faunistica nostrale, per il quale
occorrerebbe un materiale di osservazioni molto maggiore di quello che possiedo
e non gioverebbe punto al nostro popolo, digiuno come è delle cognizioni
preliminari davvero indispensabili; ma un modo breve e facile, una chiave,
un per me dizionario se così vi piace chiamarlo, onde riesca possibile di
rintracciare colla scorta del nome vernacolo, il nome italiano e tecnico dei
nostri animali più comuni. E dico più comuni quantunque, come è facile
avvertire, non ho potuto tener conto che dei vertebrati, cioè dei mammiferi,
degli uccelli, dei rettili, anfibi e pesci, troppo essendo le specie degli
animali inferiori che cadrebbero sotto un medesimo vocabolo.
In via d'esempio : il vernacolo ragn comprenderebbe parecchie
centinaia di ragni, i quali pur vivono nella nostra cittadina e suoi
dintorni; al nome di lumàga dovrei parimenti far seguire non poche entità
diverse per caratteri e per costumi; ai nomi volgari di parpàia, parpaín,
parpaiòn, corrispondono tutti i nostri lepidotteri, tanto diurni, che
crepuscolari o notturni; senza dire di moltissime altre voci vernacole cdn,
burdóc, cagnótt, cagnuttín, càmula, bigàtt, bigdttin, musca, musca
cavallina, muscón, muschín, gatta pelúsa, vespa, matalón, martinéi,
furníga, furnigón, cavalletta, gaína grisa, spusetta o spusa spusetta,
spusettón, grigrí, campé; scivattín, bíss, murné,
pioeucc pullín, tavdn, tavanín, ecc. , ecc. , nella gran
classe degli insetti, che se non hanno sempre un significato multiforme, si
prestano però sempre o quasi sempre a creare equivoci.
Pochi o meglio pochissimi esseri, restando nel campo degli
invertebrati, mi pare abbiano un termine proprio, riferibile ad una specie
sola e tra questi ricordo ad abundantiam: furbesetta, garavàsg, galavrón,
salta-martin, scímas, scímas selvàdig, sansósra, piiras, vacchetta, foeug
salvàdig, cornaboeu, liisiiroeu, ciiicía o siiscia, mustardina, scigda,
millapé, zùcchetta, ma evidentemente per non far torto ai più ho creduto bene
di escludere anche i meno.
E così pure non ho voluto occuparmi di quelle voci vernacole che
richiamano gli animali domestici, perchè anche questo esorbita non poco dal mio
intento particolare. Melius est distinguere quam confundere; importava
adunque in base a un tal principio di contenermi entro un ambito più ristretto.
Sugli animali indigeni poi appartenenti, come già dissi, alle quattro classi
ricordate, ho cercato per quanto mi fu possibile di dare l'enumerazione
completa; ma ognuno capirà che anche qui per evitare le incertezze,
specialmente negli uccelli, abbia dovuto vagliare molti dei nomi dialettali e
scartarne anche qualcuno che non mi dava sufficiente affidamento di una
determinazione sicura e precisa.
Per renderne inoltre meno monotona e pesante la lettura e per
supplire in certo qual modo al difetto della descrizione, affatto inutile,
perchè si può vedere su cento libri e che avrebbe d'altra parte aumentato di
troppo la mole di questo opuscolo, vi ho inserito qua e là alcune delle varie
leggende superstiziose e ridicole che il buon popolo, beato lui, ripete a iosa
e delle quali mostra di esserne talvolta persuaso e convinto.
Nel corso delle mie escursioncelle fatte, così a tempo perso,
attraverso i campi, in cerca di qualche pianta o di qualche animale, mi è
accaduto e non di rado d'essere colto in flagrante, mentre stavo disponendo e
riordinando le cose raccolte, anche da chi non vestiva il fustagno. Le domande
che mi si rivolgevano erano presso a poco eternamente le stesse : che ne fà di
quell'erbaccia? per cosa serve? che le giovano queste inezie? ed erano
accompagnate di solito da un sorriso di incredulità e di compatimento, il quale
se, nell'intenzione del mio interlocutore, poteva forse essere una lenzioncina
per me, finiva a diventare senza forse una buona lezione anche per lui. Questo
insomma per dire che malgrado l'utilità pratica che ponno avere in ogni genere
di persone le nozioni più importanti della storia naturale, io non sono ingenuo
e non mi illudo, anzi. . .
Mi auguro ad ogni modo che i ragazzi delle scuole elementari e
tecniche, che i cacciatori, i pescatori e i. . . dilettanti dello sport
vogliano approfittare anche di queste poche pagine che sono, lo ripeto, di per
sè ben poca cosa. E finisco colle parole di Massimo d'Azeglio: io feci per
far bene. . . se in veci feci male, pensi il lettore che anche a far male,
costa fatica e si incontra difficoltà.
Don Cozzi rimase a S. Pietro fino al 19o8, quando fu nominato
cappellano a S. Macario.
Nel frattempo però, il curato Paronzini nel 1898 scrive sul
cronicon: "Don Camillo Annovazzi nato nella parrocchia di S. Pietro, arrivava
qui come coadiutore„poco prima della inaugurazione della chiesa restaurata.
Poichè la copertura della cupola con lastre di rame, eseguita dal padre suo,
ing. Annovazzi, era stata male compiuta e dava acqua in chiesa, egli con
rilevante sua spesa, provvedeva alla riparazione. Sull'altare maggiore faceva
collocare la bella statua del S. Cuore e, dinanzi al tabernacolo un bellissimo
conopeo serico a ricami d'oro".
A don Cozzi subentrò don Benedetto Bonati, nativo di Zelo
Surrigone.
Nel 1933 don Paronzini scrive: "11 coadiutore don Benedetto
Bonati, dopo 24 anni di operosa permanenza tra noi, è nominato parroco di
Albairate. A sostituirlo è destinato don Luigi Viganò di Lissone".
Don Luigi Viganò fu praticamente il primo assistente
dell'Oratorio maschile, che si era ricavato da un pezzo della vigna del parroco
lungo la via Curioni.
Intanto era arrivato in parrocchia come coadiutore don Gaetano
Seveso incaricato di assistere l'oratorio femminile di via Toti.
Alla partenza di don Viganò, venne destinato a S. Pietro il prete
novello don Antonio Tosi, ordinato nel giugno del 1941. Il momento non era
felice: nel 1940 l'Italia era entrata in guerra, il parroco Paronzini era
ormai verso la fine dei suoi giorni, per cui quando il 15 maggio del 1942 muore,
viene eletto parroco Don Ercole Tettamanzi e don Tosi viene invitato a
rimpiazzare il posto lasciato libero da don Tettamanzi nella parrocchia di
Corsico.
Il parroco assume la direzione dell'Oratorio maschile finchè nel
luglio del 1943 viene nominato coadiutore il prete novello don Davide Bosetti.
Il parroco nel cronicon fa questa osservazione: "Fu poco fortunato i primi mesi
perchè l'Oratorio fu occupato dai sinistrati di Milano i qual i, quindi,
impedivano lo svolgersi regolare della vita dell'Oratorio".
Va tenuto anche presente che i giovani erano al fronte.
Dicembre 1943, dal cronicon: "Dopo ormai quattro anni di guerra,
correva insistente la voce popolare che tra la festa dell'Immacolata e la festa
di Natale la guerra sarebbe terminata; tanto più prese credito questa cosa
perchè nei mesi di settembre e ottobre si videro molte piante rifiorire come se
si fosse in primavera e questo fatto venne interpretato come un buon preannuncio
del Cielo della fine sospirata; invece la nostra parrocchia era destinata a
trascorrere le feste del S. Natale, in modo più triste per causa della
incarcerazione di don Gaetano Seveso nostro coadiutore. La sera del giorno 22
di dicembre, terminato ormai il giro per la Benedizione delle case, due
individui in abito borghese appartenenti alla S.S. tedesca si presentano in
casa del coadiutore don Gaetano Seveso, gli chiesero conto di una certa predica
fatta qualche mese prima e lo dichiararono in arresto e lo condussero via con
un'automobile; il parroco chiamato, che tentò di dire qualche parola in difesa
del coadiutore venne invitato a tacere colla minaccia di condur via lui pure. Si
seppe con certezza che la denuncia era stata fatta dal colonnello Bianchini,
comandante del distretto di Milano, sfollato ad Abbiategrasso; ed i capi di
accusa erano che don Gaetano Seveso in predica avrebbe accennato al fatto che
nell'altra guerra i Tedeschi entrando nel Belgio avrebbero tagliato le mani a
dei bambini; avrebbe detto alla gente di nascondere oro e gioielli perchè i
Tedeschi li porterebbero via; avrebbe detto anche di dare legnate ai Tedeschi
e fascisti che si presentano a chiedere roba; e da ultimo avrebbe detto anche
che ammazzare un tedesco è la via più facile e sicura per andare in paradiso.
Naturalmente tutto risultò falso e dopo 25 giorni di prigione a S. Vittore a
Milano, uscì libero il 17 gennaio 1944 e venne accolto con gran festosità da
tutta la popolazione che durante tutto il tempo della sua lontananza aveva tanto
pregato. Poco dopo si scoprì che il colonnello Bianchìni era un ipocrita che gia
in altre occasioni aveva accusato e imbrogliato altri ed aveva tentato di
imbrogliare il Governo stesso, ragion per cui venne destituito del posto,
privato del grado e messo sotto processo militare".
Nel luglio del 1949 il coadiutore don Gaetano Seveso viene
nominato parroco di Rozzano.
Nel giugno 1945 viene a S. Pietro come coadiutore il sacerdote
novello Don Giovanni Tettamanzi, nipote del parroco. Lascia S. Pietro nel 1988 e
muore al paese nativo di Veniano nel 2007.
Nel giugno del 1954 viene destinato come coadiutore don Gianni
Marcandalli, ma dopo solo 12 mesi lascia per andare missionario di Rho. A
sostituirlo venne qui da Cernusco Sul Naviglio il sacerdote Don Carlo Tradati,
nativo di Milano. Sarà trasferito parroco a Borgo Est di S. Giuliano Milanese
nel 1969.
Intanto don Davide Bosetti che da 13 anni ormai era qui a S.
Pietro negli ultimi giorni del 1957 è nominato parroco di Cisliano.
Don Gianni Tavecchia gia coadiutore nella prepositurale di
Gallarate nel 1958 viene destinato a S. Pietro, da dove partirà come parroco di
Maccagno Inferiore nel 1964.
Qualche mese dopo la partenza di Don Tavecchia, venne coadiutore
in parrocchia Don Agostino Meroni da Misinto, ma dopo solo 7 mesi andò parroco a
Baruccana di Seveso.
Intanto nel 1951 si era iniziata la costruzione del nuovo
Oratorio S. Giovanni Bosco, con relativa abitazione per l'assistente.
Il primo ad abitarvi fu don Tradati a cui successe nel 1969 Don
Luigi Alberio, prete novello di Rovello Porro. Rimase in Oratorio maschile fino
al 1981 per poi passare all'Oratorio femminile fino al 1983.
Nel frattempo venne qui nel 1974 don Angelo Cazzaniga di Rosate e
vi rimase fino al 1980 quando fu nominato parroco di Moncucco.
A sostituire don Alberio venne nel 1981 don Luciano Garlappi di
Novate M. e rimase fino al 1992 quando scelse di andare missionario "Fidei
Donum".
Come coadiutore di parrocchia venne nel 1989 Don Piero
Pigliafreddo di Bareggio: e rimase in S. Pietro fino al 1993 quando fu nominato
parroco al villaggio Brollo.
Al posto di don Luciano venne Don Claudio Maggioni nativo di
Oreno e gia coadiutore nella parrocchia di S. Giuseppe in Sesto San Giovanni.
Partì da S. Pietro nel 1997. Come coadiutore di parrocchia venne da Inveruno
nel 1993 Don Carlo Pirotta che rimase a S. Pietro fino al 2005 quando fu
nominato parroco della chiesa dello Spirito Santo in Corsico.
E venne la volta di Don Egidio Corbetta di Carugo, approdato a S.
Pietro nel 1997, per cui sono dieci anni che è qui tra noi e gli facciamo tanti
auguri ancora per il suo decennio.
In riferimento all'elenco dei sacerdoti che hanno esercitato il
ministero in S. Pietro qualcuno potrebbe pensare che tutto quell'andirivieni di
coadiutori fosse determinato da situazioni difficili presenti in parrocchia.
Si deve invece tenere presente che la nomina a parroco di don
Ottavio Paronzini, giovane di 28 anni, aveva portato una ventata di novità, la
parrocchia poi, allora era molto vasta, con 170 cascine, il rione di S. Rocco
alla Darsena e l'assistenza dell'ospedale Costantino Cantù che muoveva allora i
primi passi.
Segno di questa vitalità erano anche le Confraternite, le
Associazioni e le Pie Unioni.
A proposito del Rione S. Rocco, soltanto nel 1970 l'arcivescovo
Colombo ha inviato a S. Pietro il sacerdote Don Eugenio Carsana proveniente
dalla parrocchia di S. Giuseppe in Sesto S. Giovanni con lo specifico incarico
di avviare la nuova parrocchia del S. Cuore che venne canonicamente eretta nel
1972, con territorio stralcialo dalla parrocchia di S. Pietro e da S. Maria
Nuova.
A proposito di luoghi di culto nelle cascine, bisogna tenere
presente che quando nel secolo XIII, in seguito alla bonifica della Valle del
Ticino sorsero le aziende agricole, costituite da abitazioni per i coloni,
stalle per le bestie, magazzini per il foraggio e i raccolti, il tutto accanto
ai campi da coltivare, gran parte della popolazione della parrocchia di S.
Pietro si stabilì in quelle località, dove si sentì il bisogno, data la
lontananza dalla chiesa, anche di luoghi di culto, destinati alla preghiera e
alla celebrazione della Messa festiva.
Un esempio di questo l'abbiamo alla cascina Remondata dove a
detta di mons. Ambrogio Palestra esisteva già un Oratorio elencato nel sec.
XIII. La costruzione però che si vede tuttora risale al 1755 e fu voluta dalla
signora Antonia Pusterla Marchesa Citterio. Nel 1756 il cardinale Giuseppe
Pozzobonelli in Visita Pastorale, ha visitato l'Oratorio appena costruito. In
questo oratorio si è celebrata la Messa festiva fin quasi la fine
dell'Ottocento. L'Oratorio fu dedicato alla B. V. Addolorata e parroco
dell'epoca era Tomaso Azzimonti sotto la cui cura parrocchiale avvenne la nuova
fabbrica della chiesa di S. Pietro.
Un altro esempio di oratorio campestre l'abbiamo nella "Gesa",
(Baraggia Chiesa) instrada Cassolnuovo. Si tratta di una costruzione tuttora
visibile nella parte esterna, sconsacrata all'inizio del Novecento. Anche
questa costruita per le esigenze religiose delle cascine vicine come cascina
Fontana Baraggia Roma e Baragetta. L'iniziativa venne presa dai proprietari
terrieri del luogo, gli Archìnto e si fece promotrice Camilla Stampa, moglie del
conte Filippo Archínto, che tra l'altro era fratello di Giuseppe Archinto
arcivescovo dì Milano dal 1699 al 1712.
La contessa Archinti, per tale scopo, rivolgeva una supplica alla
Curia di Milano, il parroco don Carlo Antonio Croce (1646-1681) avvalorava là
richiesta con là seguente lettera:
lettera del novembre 1661 :
« Nella visita fatta a giorni passati in questa Pieve di
Abbiategrasso è mea cura insieme partecipar a V. Ill. ma a bocca il bisogno ché
havevano molte anime di mia Cura habitanti alle Cassine nella Valle
d'Abbiategrasso sì per la quantità di quelle, come per la lontananza ché di due
o di tre miglia, e più ancora dalla comodità di sentir la messa alle feste, et
di frequentare la dottrina cristiana: à segno tale che non solo ne tempi
d'inverno e di pioggia, nevi e venti bona parte perdono la messa, ma tutto
l'anno non si vedono mai alla dottrina cristiana, mercé la lontananza, dico che
dopo haver fatto il viaggio per la messa il ritornarsene alla dottrina
cristiana, è a loro impossibile: Ill. mo
Signore l'esser quest'anime à me raccomandate da Dio come fece al
mio titolare e Protettore San Pietro con quelle parole "pasce oves meas, quas
sanguine meo redemi" e vedendo ogni giorno che molti di quelli non sanno le cose
necessarie alla sua salute, e a dirla con mio estremo dolore homeni ch'hanno la
testa e non sanno il Pater Noster e Credo; questo mi obbligo a significare il
tutto a Vs. Ill. ma come al Curato Zelantissimo di tutti li Curati di questa Sua
Diocesi, acciò cooperi sol Suo zelo et mezzi, a soccorrere alla necessità di
queste genti come farò anch'io col farli fare un Oratorio pubblico nel mezo
delle Cassine che saranno al numero di 40 Cassine per farli poi celebrare una
Mesa festiva et esercire la Dottrina Cristiana. A questo effetto li Signori
Deputati della terra di Abbiategrasso per istromento hanno donato il sito per
fabbricare detto Oratorio, con promessa di fare qualche altra elemosina ». Il
parroco ricorda poi la donazione degli Archinti di 400 soldi e così prosegue:
« Altri Signori particolari di Abbiategrasso hanno esibito
qualche elemosina per questo effetto. Resta solo che V. Ill. mo conceda
l'opportuna licenza di dar prencipio a quest'opera. . . e il tutto si farà a
honore a gloria di Dio e a beneficio di quelle povere anime. che da lui furono
redente, benché poveri, col suo pretiosissimo sangue. . . ».
Come ho già detto sopra questa costruzione ha funzionato come
luogo di culto fino alla fine del 1800 ed è giunto fino a noi il toponimo.
Trattando degli antichi luoghi di culto esistenti nel territorio
della parrocchia di S. Pietro, non si puo dimenticare la chiesa del convento
dell'Annunciata. Questa, edificata con l'annesso convento negli anni 1469-1472,
venne subito frequentata dai fedeli per vari motivi. I1 26 aprile 1472 viene
redatto un diploma con il quale il duca Galeazzo Maria Sforza delega Paolo
vescovo Eleneopolitano e Francesco di Baviera, castellano di Abbiategrasso, di
consegnare ai Frati Minori il Convento dell'Annunciata. I Frati Minori
appartenevano all'Ordine direttamente fondato da S. Francesco; vennero poi i
Conventuali e poi i Cappuccini.
Le chiese officiate dai frati non esercitavano la "cura
d'anime"; questa era affidata solo alle chiese parrocchiali, ma nelle chiese
dei conventi, per la presenza di parecchi religiosi, si celebravano tante
Sante. Messe; non si celebravano Battesimi e Matrimoni, ma potevano celebrare i
funerali e avevano anche il diritto di seppellire i morti nel loro cimitero. Da
qui nascevano i contrasti con i rispettivi parroci dei defunti, ma poi tutto si
accomodava perchè i frati dell'Annunciata si rendevano utili alle parrocchie per
il servizio di assistenza spirituale e caritativa, particolarmente per gli
abitanti delle cascine. Soprattutto durante le frequenti epidemie l'opera dei
frati si rivelava tanto preziosa.
Basterebbe ricordare l'esempio di frate Giambattista Solario
Miramondo che contrasse il morbo assistendo gli appestati alle Gabane e morì il
2 settembre 1630.
Ma era soprattutto la predicazione dei frati che attirava i
fedeli all'Annunciata, perchè bisogna sapere che in questi secoli il clero
secolare non predicava, tranne rare eccezioni. Il ministero della predicazione
era affidato ai religiosi, specialmente i francescani: basterebbe citare S.
Bernardino da Siena.
Un altro motivo che spiega la frequenza dei fedeli all'Annunciata
era costituito dal fatto che in quella chiesa si potevano lucrare le
Indulgenze. Il papa Sisto IV con Bolla in data 29 aprile 1473 concede in
perpetuo dieci anni e altrettante quarantene a chi, pentito e confessato,
visiterà la chiesa della SS. Annunziata fuori di Abbiategrasso nei giorni
festivi dell'Annunziata di Maria Vergine e del Padre Serafico Francesco
d'Assisi.
Naturalmente tutto questo è caduto con la sconsacrazione del
Convento e della chiesa, sì, perchè la chiesa dell'Annunciata, a differenza
delle altre chiese di Abbiategrasso, era stata consacrata il 30 agosto 1477 da
Antonio De Catijs vescovo Salonense e canonico della cattedrale di Novara, con
licenza del Vicario generale dell'arcivescovo di Milano Stefano Nardini
cardinale (1461-1484). Nella mensa dell'altare maggiore vennero collocate le
reliquie di S. Bartolomeo apostolo, S. Lorenzo martire, S. Barbara, S.
Teodosio e S. Apollonia. Era presente il Reverendo frate Cristoforo
Scaccabarozzi di Milano, degnissimo guardiano del Convento.
Il convento dell'Annunciata, che era riuscito a superare lo
scoglio delle riforme ecclesiastiche di Giuseppe Secondo, l'imperatore
"sagrestano", venne travolto dal rullo compressore di Napoleone e nel 1810,
soppresso il Convento, anche la chiesa subì la stessa sorte e tutta la
suppellettile venne venduta e dispersa. Si trattava di arredi sacri, paramenti,
statue, quadri. Forse sono arrivati a noi la statua di S. Fermo, che era in S.
Maria, i quadri della Via Crucis, che sono ora nella chiesa del S. Cuore e la
cassa dell'organo che finì nella chiesa di Castelletto. Vennero vendute anche le
due campane lasciando la cella campanaria come una bocca sdentata. Come sarebbe
bello ridare la voce a quel campanile che ha chiamato alla preghiera generazioni
di frati e di fedeli, collocando una campana per i rintocchi delle ore.
Nel 1811, tramite la Congregazione di Carità, il convento divenne
sede della sezione maschile degli ospiti della Pia Casa. La chiesa, limitata
alla parte che faceva capo all'altare di S. Fermo venne adibita per il servizio
liturgico dei ricoverati; abbandonando la zona presbiterale e demolendo le tre
cappelle laterali, fu mantenuta l'ortaglia circostante, che divenne un
importante aiuto economico per il Pio Luogo.
In seguito è cominciato il degrado che era sotto gli occhi di
tutti in questi passati decenni finchè arrivo il momento della risurrezione di
questo complesso architettonico per il godimento degli Abbiatensi e non solo.
Nell'elencare
la suppellettile trasferita dall'Annunciata ad altri luoghi di culto, dopo la
soppressione del convento, ho tralasciato, di proposito, di accennare ad un
quadro che certamente era in tale chiesa e, forse, anche ad un altro manufatto
che là era custodito e venerato.
Il quadro, come ben si sa, rappresenta la "Beata Vergine degli
Angeli", opera attribuita a Giambattista Crespi, detto il Cerano, eseguito negli
anni 1592/1593. Riguardo a questo quadro lascio ai competenti di disquisire sul
suo valore artistico, io mi limito a trattare del suo significato devozionale.
Il soggetto del dipinto riguarda i cosiddetti "cordiglieri",
ossia quei laici che coltivavano la devozione a S. Francesco d'Assisi e che,
come distintivo portavano il cordone tipico dei francescani.
Dante stesso nella Divina Commedia mette in bocca a un
personaggio incontrato la seguente frase: "Io fui uomo d'arme, e poi fui
cordigliero". Furono chiamati cordiglieri anche i membri del club rivoluzionario
fondato da Danton nel 1790, perchè aveva come sede un ex convento francescano.
Niente però di tutto questo per gli iscritti all'Arcicofraternita
di Assisi, che nella chiesa dell'Annunciata avevano la loro sede in una delle
tre cappelle laterali, poi demolite. Il quadro era collocato sopra l'altare,
davanti al quale si radunavano i "cordiglieri" per le loro devozioni. Il quadro
dopo la soppressione del Convento fu portato alla parrocchia centrale di S.
Maria e, dopo un periodo di abbandono, adesso è tornato alla luce.
E' mia opinione che anche
il Crocifisso, collocato a destra dell'ingresso in S. Bernardino, provenga
dall'Annunciata. Questa mia opinione è suffragata dal fatto che il Crocifisso in
questione che, durante il restauro, ha rivelato la data di esecuzione(1690), è
di sicura provenienza da un luogo di culto di Rito Romano. In realtà si tratta
di una scultura che ha le braccia snodate e gli occhi mobili. Questo mi fa
pensare alla cerimonia del Venerdì Santo, tipica del Rito Romano, quando,
durante la commemorazione della morte del Signore, il celebrante stacca la
figura del Cristo dalla croce lo adagia su un piano e raccoglie le braccia sulla
parte anteriore della scultura.
Ma c'è un altro motivo che mi fa propendere per tale provenienza.
Il fatto che questo Crocifisso non ha avuto la collocazione "onorifica" in una
cappella. Fu invece collocato in un vano, che dalla piantina della chiesa di S.
Bernardino risalente al 1689, è detto "vestibolo vicino alla cappella di S.
Mauro". Questo mi pare sufficiente per dire che quel Crocifisso proviene dalla
chiesa dell'Annunciata, o da altra chiesa di Rito Romano e che, comunque, in
origine non era collocato in S. Bernardino.
E' vero che, tale immagine fu in seguito tanto venerata, anche
perchè la sua collocazione accanto al sepolcro dei "giustiziati ", ha mosso a
pietà i devoti abbiatensi.
E' passata inosservata sulla
stampa locale la notizia della morte di S. E. Mons. TERESIO FERRARONI avvenuta a
Lecco il 4 settembre scorso.
Desidero ricordarlo in questa rubrica mensile perchè è pur sempre un figlio
della nostra terra e che ha fatto onore a questa nostra non sempre apprezzata
"Bassa". Teresio Ferraroni nacque a Gaggiano nel 1913, ordinato prete a Milano
nel 1936. Dopo un breve periodo di insegnamento presso il seminario di Seveso,
visse per molti anni a Lecco come insegnante di religione al Liceo e assistente
delle ACLI. Dal 1958 al 1965 fu Prevosto di Sesto San Giovanni, quindi Vicario
Episcopale della nostra zona, Vescovo ausiliare del Card. Colombo e Provicario
generale dell'Arcidiocesi di Milano. Nel settembre del 1970 venne nominato
Vescovo coadiutore di Como con diritto di successione al Vescovo titolare Mons.
Felice Bonomini.
Tre
anni dopo, ancora in presenza di Bonomini, assunse la guida della diocesi in
qualità di "amministratore apostolico", fino a diventare titolare della sede di
Como nel 1974. Rimase in diocesi fino al 1988 quando, per raggiunti limiti di
età, rassegnò le proprie dimissioni e si ritirò a Lecco. E' tornato alla casa
del Padre martedì 4 settembre 2007. Ricordiamolo nella preghiera.
Riflettevo su questa morte anche in concomitanza della elevazione all'Ordine
episcopale dì ben sei preti della nostra Diocesi di Milano, originari sì di
questa nostra Chiesa milanese, ma geograficamente abbastanza lontani da noi. Tra
questi c'è anche il nostro Vicario episcopale, Mons. Mario Delpini,
completamente ignaro fino ad oggi; della nostra zona. Però, pensavo, anche la
nostra è stata terra di vescovi. Mi si affacciavano alla mente i vescovi da me
conosciuti e nati in questa "Bassa". Penso a Mons. Luigi Arrigoni, nato a
Ticinello di Morimondo e morto Nunzio Apostolico a Lima in Perù, Mons. Anacleto
Cazzaniga di S. Pietro di Abbiategrasso, morto Arcivescovo emerito di Urbino, a
Mons. Teresio Ferraroni, di cui sopra, Mons. Francesco Bertoglio nato a Magenta,
vescovo ausiliare di Milano, Mons. Alessandro Maggiolini di Bareggio,
attualmente Vescovo emerito di Como.
Risalendo più in su nel tempo non posso tralasciare di ricordare Mons. Giuseppe
Maria Bozzi, vescovo di Mantova. Precisamente a Mantova è andato uno dei sei
preti ordinati il 23 settembre Mons. Roberto Busti, prevosto di Lecco.
Di
Mons. Bozzi riporto dal "Quadrante Padano" i seguenti dati biografici.
Giuseppe Maria Bozzi, vescovo di Mantova dal 1823 al 1833, nacque in una
famiglia della Bassa milanese. Il padre, Giovanni Antonio, risiedeva alla
cascina Mottaiola di Rosate e nel 1767 aveva sposato Maddalena Belloni,
originaria del vicino paese di Casorate. Rosate e Casorate, come Abbiategrasso,
erano allora località prevalentemente rurali, dove un intenso sentimento
religioso permeava e regolava la vita individuale come quella collettiva. Nei
tre borghi ricordati avevano anzi sede altrettante Pievi, cioè le istituzioni
ecclesiastiche create secoli addietro per la diffusione del cristianesimo nel
contado. E proprio quel triangolo del milanese era destinato a diventare la
terra di missione di Giuseppe Maria Bozzi.
Il
futuro vescovo di Mantova nacque dunque alla cascina Mottaiola di Rosate il 7
gennaio 1772. Entrato adolescente nel seminario milanese, a soli 23 anni non
solo è diacono ma ha gia conseguito una laurea in Teologia Morale
nell'Università di Pavia. Esercita il ministero nel cenobio milanese di S.
Eustorgio, nel collegio degli oblati di Rho e presso la chiesa prepositurale
della nativa Rosate, dove si presta per l'insegnamento della Dottrina cristiana.
Nel 1796 viene ordinato sacerdote e dopo soltanto sei anni nel 1802 viene
nominato Prevosto della chiesa di S. Maria Nuova di Abbiategrasso; ha da poco
compiuto trent'anni. In questo borgo resta fino al 1816, quando viene nominato
Prevosto di Casorate. Qui si impegna soprattutto nell’ingrandire la
prepositurale di S. Vittore e nel 1823 lo coglie la nomina episcopale. Mantova
faceva parte dell'impero austro-ungarico e la scelta del Bozzi viene fatta
dall'imperatore Francesco I° d'Austria e consacrato dal Papa Pio VII. A
cinquant'anni Don Giuseppe Maria prende possesso della diocesi mantovana,
"preceduto da ottima fama per le doti dell'animo e della dottrina", come si
legge in una relazione del tempo. In terra ambrosiana si erano apprezzate le
doti del carattere, risoluto e tuttavia cordiale, ma per la nomina influì anche
l'essersi temprato al clima "crasso" della Bassa lombarda, giudicato assai
simile a quello mantovano (aria insalubre era giudicata quella di Rosate). I1
solenne ingresso a Mantova è del 31 agosto: "La città tutta - si legge in una
relazione della polizia austriaca - per impulso spontaneo diede pubbliche
dimostrazioni di gioia per sì fausto avvenimento".
Ma,
dopo qualche anno, è proprio la salute a venire meno. Nel 1828 Mons. Bozzi si
ammala e nell'anno successivo non è più in grado di governare la diocesi. Muore
il 14 dicembre 1833, senza essersi più ripreso da quella infermità; nomina erede
universale il Seminario mantovano e viene sepolto nel coro della chiesa
cattedrale.
Dopo d'aver
ricordato e descritto gli oratori (chiesette) costruiti nelle cascine è doveroso
dedicare una attenzione all'oratorio (ora scomparso) all'interno dell'abitato
del sobborgo di S. Pietro, ossia la chiesa di S. Eusebio, sede della
Confraternita dei Dodici Apostoli, denominata in seguito anche di S. Eusebio e
della Madonna delle Grazie. .
Tralasciando di
parlare delle Confraternite e della loro importanza avuta nei tempi passati
nella vita delle parrocchie (di questo ho già parlato in uno scritto
precedente), voglio dire una parola sul santo cui la chiesa fu dedicata. Si
tratta senz'altro di S. Eusebio di Vercelli, venerato in modo particolare dal
popolo longobardo e questo ci assicura dell'epoca di costruzione di tale chiesa,
ossia l'alto medioevo. Si potrebbe pensare anche a S. Eusebio, diciannovesimo
vescovo di Milano (449/462), benemerito per aver rincuorato i milanesi dopo
l'invasione degli Unni, che avevano saccheggiato e distrutto la cattedrale,
fatta ricostruire appunto da Eusebio. D'altra parte la Bibliotheca Sanctorum
enumera ben 42 santi col nome di Eusebio. Dunque i Longobardi costruirono nel
sec. VII/VIII tale chiesetta che soltanto in seguito divenne sede di
confraternita.
Della primitiva
costruzione nulla è arrivato a noi, anche se qualche muro esistente in un
cortile di corso S. Pietro potrebbe far pensare di riferirsi a tale edificio.
S. Carlo venendo in Visita Pastorale nel 1567 fece visitare una chiesa nel
sobborgo di S. Pietro, antichissima e dedicata S. Eusebio, ma quasi
completamente rovinata, per cui ne ordinò la demolizione. .
In realtà la
chiesa venne riparata o riedificata in modo da potere essere ancora ufficiata ed
è da allora che diventa sede di Scuola di Dottrina Cristiana, diretta dagli
Scolari dei SS. Dodici Apostoli, che seguivano la Regola dei disciplini, avendo
come distintivo l'abito bianco in onore della Beata Vergine Maria, la cui statua
era venerata sull'altare, mentre sotto la mensa dell'altare si venerava il corpo
di S. Restituta.
S. Carlo che
aveva autorizzato la ricostruzione della chiesa nel 1S77 aveva dato delle sagge
norme per non contrastare la vita della parrocchia, come la proibizione di
celebrare funerali in tale chiesa e non avere sepolcri, ma durante la
costruzione della chiesa di S. Pietro (1753/1763) S. Eusebio divenne sede per le
funzioni parrocchiali. Nel 1803 in seguito alla soppressione delle
Confraternite, tale chiesa, sconsacrata divenne sede della gendarmeria e poi
della caserma dei carabinieri, chiudendo così una pagina sacra tanto gloriosa.
Riprendo da
dove ho lasciato (dovuto all'intervento per l'asportazione della cataratta da
ambedue gli occhi), l'elenco degli oratori presenti all'interno dell'abitato
urbano della parrocchia.
Parto,
naturalmente, dalla chiesa di Villa Sanchioli (ora Villa Comunale). Si tratta di
un piccolo edificio di culto, inserito nel complesso della costruzione e che
serviva per i proprietari della villa. Attualmente l'oratorio è sconsacrato, il
sepolcreto che conservava le reliquie dei Santi nella mensa dell'altare, risulta
vuoto. La pala dell’altare raffigurante la Madonna con il Bambino Gesù sulle
ginocchia avente al lato destro S.Carlo Borromeo e al lato sinistro S.Giovanni
Battista, è conservata in Municipio nella sala consigliare. Della suppellettile
sacra non rimane più nulla, ma sono interessanti le scritte alle pareti.
Sopra la parete
dell'altare:
DEIPARAE SINE
LABE CONCEPTAE
(alla madre di
Dio concepita senza peccato)
Nella
controfacciata:
OB HONOREM
REGINAE VIRGINUM NOVITER EXTRUCTA
(ricostruita nel
1765in onore della Regina delle Vergini)
Sopra la porta
laterale che immetteva nella sacristia:
IMMACULATAE
VIRGINI DICATA NOVOQUE DECORE EXORNATA MCMXXX
(dedicata alla
Vergine Immacolata, di nuovo decorata - 1930)
Nella parete
sinistra dell'oratorio è murata una lapide con la seguente scritta:
PACE IN XSTO
AL SACERDOTE ANTONIO ALIPRANDI, BENEFICIARIO TITOLARE DI
QUESTA PREVOSTURA, DI CUORE FACILE PROCLIVO ALLA BENEFICENZA CHE NEL
GIORNO 22 APRILE 1845, SPIRANDO CO LA RASSEGNAZIONE DEL FORTE LEGAVA, A
PERENNE RISTORO DE' POVERI LANGUENTI UNA SOMMA CAPITALE. L'EREDE NIPOTE
CARLO SANCHIOLI ETERNA IL BEN DEGNO SALUTO DELLA RICONOSCENZA.
Alla parete di
destra un'altra lapide ha la seguente scritta:
TERESA
SANCHIOLI NATA ALIPRANDI D'ANNI 23.
CRUDO MAL MI
TRASSE A MORTE.
MA IN TE
SPERO O MIO SIGNORE
MIGLIORATA LA
MIA SORTE
LA' NEL SEN
D'ETERNITA'.
BENEDIZIONE DELLA NUOVA EDICOLA
DELLA MADONNA DI CARAVAGGIO
"Fede e amore di popolo vollero questo segno sacro"
Queste parole sintetizzano molto bene le vicende della cappellina
posta all'angolo di via Caprera con via XXIV Maggio. Infatti si tratta della
terza ricostruzione realizzata sullo stesso posto.
La prima costruzione risale al 1740 quando la Confraternita di
S.Pietro la volle per servire da sosta durante la processione eucaristica nella
festa del Patrono. L'area per la edificazione fu offerta dal proprietario
marchese Pietro Citterio, in località detta anticamente "Antiquaglio". Il
marchese Citterio era discendente della famiglia che già aveva edificato
l'oratorio dedicato all'Addolorata presso la cascina Remondadella. Si trattava
allora di un piccolo edificio a pianta quadrata, avente sulla parete di fondo un
dipinto raffigurante la Madonna tra i santi Pietro e Paolo. Nel 1938 i fedeli
vollero sostituire la precedente immagine, ormai scolorita, con l’icona della
donna di Caravaggio. Quando la Nestlè, acquistata l'area dai fratelli Meloni,
che erano proprietari, costruì il nuovo stabilimento, demolita la vecchia
cappella, ne fece costruire una nuova, mantenendo la stessa dedicazione alla
Madonna di Caravaggio. L'affresco sulla parete fu eseguito da un certo pittore
Milani e, quando con il trascorrere degli anni, l'immagine si era alquanto
sbiadita, venne rinfrescata dal pittore De Paoli di Albairate, durante l'anno
mariano del 1987.
Con la costruzione del complesso abitativo immobiliare, da parte
della Cooperativa Edilizia Monteverde ACLI, si rese necessaria la demolizione
della cappella e di conseguenza l'edificazione della nuova. La Cooperativa si
accollò la spesa e così oggi possiamo ancora ammirare e venerare la Madonna di
Caravaggio.
Il progetto è dell'architetto Marco Biglieri, che ideò una
costruzione aperta e luminosa; la decorazione, mosaico compreso, la si deve al
genio artistico del Signor Raffaele Beretta di Albese (Co), pittore e scultore.
La nuova edicola venne inaugurata e benedetta la sera del 23
maggio scorso e il tutto è apparso di felice gradimento ai numerosi fedeli
presenti alla cerimonia. La fedele riproduzione della scena dell'apparizione
della Madonna alla Beata Giannetta il 26 maggio 1432 a Caravaggio, appare in
tutto il suo splendore mediante i colori dai riflessi dorati del mosaico.
Adesso c'è da augurarsi che i vicini del quartiere e i numerosi
passanti (l'edicola è posta alla confluenza di ben cinque vie), rivolgano uno
sguardo e recitino un saluto orante a Colei che ci ha dato il Signore Gesù e che
continua a mostrarsi madre nostra.
A
completare l’elenco degli oratori privati esistenti nel territorio della
parrocchia di S.Pietro bisogna aggiungere quello di palazzo Arconati.
Dice
il Palestra: "La più importante costruzione rimastaci del '500 è il Palazzo
Arconati, un tempo dimora fastosa di una delle più antiche famiglie nobiliari
lombarde. Il palazzo, costruito dai nobili Capitanei di Arconate, già esisteva
nel 1559. Marcantonio Arconati dispose per la costruzione dell'oratorio, detto
di S.Maria delle Grazie, costruito poi dal figlio e benedetto il 21 novembre
1640".
In
quel tempo la presenza di un oratorio accanto al palazzo non solo si prestava
per le pratiche religiose, ma aggiungeva anche prestigio al casato. In più per
gli Arconati c'era il fatto che solitamente veniva scelto tra i componenti della
stessa famiglia la carica di priore della Confraternita. Si spiega allora perchè
l’urna con le reliquie di S.Restituta venne portata all'oratorio di palazzo
Arconati.
Dal
Diario Abbiatense del Saini: "1891. Informazioni Rovere Bartolomeo. Il sarcofago
di S.Restituta era nell'Oratorio di S.Eusebio e Bartolomeo. Soppressa quella
chiesa, passò nella chiesiola del Marchese Arconati al Palazzo. Nel 1839 il
Marchese Arconati lo cedette alla chiesa di S.Maria Nuova dove fu trasportato
con solenne processione."
Nella
nota sottostante si dice: "La notizia è esatta, perchè nella Civica Raccolta
Stampe si conserva un'incisione del 1740, raffigurante la teca del corpo di
S.Restituta, venerato nella chiesa di S.Eusebio di Abbiategrasso. L'incisione fu
commissionata dal marchese Giuseppe Arconati, protettore della Confraternita di
S.Eusebio".
Adesso è d'obbligo una digressione. Chi era S.Restituta?
L'Enciclopedia Sanctorum elenca sette sante con questo nome, quasi tutte di
origine leggendaria; la più venerata è la patrona di Napoli e Ischia, ma anche
questa non ha un fondamento storico. D'altra parte non ci dobbiamo meravigliare
né tanto meno scandalizzarci.
Nel
16oo ci fu la riscoperta delle Catacombe romane e si pensava che tutti gli
scheletri ivi rinvenuti fossero corpi di Santi. A questa convinzione si era
arrivati anche osservando delle ampolle poste nei loculi accanto ai defunti,
ritenendole dei contenitori del sangue dei martiri. In realtà si trattava di
boccette colme di balsamo per aerare quegli ambienti sotterranei e rendere meno
sgradito il fetore dei cadaveri.
Ci fu
allora una gara da parte delle Confraternite per ottenere queste ritenute
reliquie di martiri. L'autorità ecclesiastica, convinta come sempre che il culto
delle reliquie è pur sempre un culto relativo, accolse di buon grado tali
richieste, conferendo a quelle ossa dei nomi cristiani come: Innocente,
Crescenza, Lucina, Vincenzo, Costantino, per restare ai santi venerati nella
nostra zona e appunto Restituta che significa "restituita al culto pubblico".
Sono i cosiddetti "santi battezzati " ossia cadaveri delle catacombe di cui si
ignora il nome e di cui la chiesa ne permette la venerazione.
Conclusione? Continuiamo in questa prassi senza esagerazioni o fanatismi,
ricordando che il culto di adorazione deve essere rivolto solo a Dio e la
Madonna e i Santi sono venerati in quanto ci portano a Dio.
Salviamo allora la retta intenzione di quegli Scolari della Dottrina Cristiana
che nel 1588 fondarono la Confraternita dei Dodici Apostoli nella chiesetta di
S.Eusebio che accolse in seguito l'urna di S.Restituta.
Prima
di chiudere questo capitolo sulle chiesette mi piace ricordare:
- un
oratorio dedicato all'Annunciazione alla Casilina per la famiglia Clerici
- un
oratorio dedicato all'Immacolata alla Fontana per la famiglia Archinti (gia
ricordato),
-
alla Rusca l'oratorio dedicato all'Assunta.
Non
voglio tralasciare un piccolo oratorio domestico, piccolo ma grazioso, nel
palazzo che fu degli Invernizzi in via Legnano e che adesso ospita
l'associazione Terza Età.
Tutto questo è un invito a non dimenticare la presenza del sacro,
o, se volete, la nostra identità cristiana di fronte alla sfida del secolarismo.
Nello scorso mese di
settembre ho riportato qualche notizia sul parroco Cesare Stopino (1590 - 1604).
Dei suoi successori ho ricordato in modo particolare Tommaso Azimonti (1737 -
1773) perché durante i suoi anni di cura parrocchiale fu costruita la nuova
chiesa. Ma di questo ho parlato diffusamente nel mio primo lavoretto pubblicato
nel 1999.
Anche del parroco
Giacomo Crosti ( 1773 - 1798) vi avevo fatto qualche accenno per il fatto che i
suoi anni di permanenza in S. Pietro furono turbati dalla Rivoluzione Francese.
Voglio in questo mese
soffermarmi sulla figura del parroco Carlo Crippa (1799-1803), quando andò
prevosto a Primaluna in Valsassina.
Proprio nell'archivio
prepositurale di Primaluna si trova la seguente memoria:
CRIPPA CARLO FRANCESCO GEROLAMO.
Di Merate. Nato nel
1755. Orfano in tenera età fu educato dallo zio, sacerdote Benedetto Crippa
Rettore di S. Maria alla Noce. Continuò gli studi sotto la direzione dei P.
Gesuiti nell'Università di Brera e nel Seminario di Milano.
Al Suddiaconato
chiese ed ottenne la grazia di essere accolto nella Congregazione degli Oblati,
ed aggregato al Collegio dei Missionari di Rho col titolo della Mensa di S.
Sepolcro. Fu consacrato nella Cappella privata del Convento dei Carmelitani
scalzi in Milano dal Carmelitano Mons. Cornelio Reina Vescovo di Ispaan, nella
Persia.
Sacerdote Missionario
nel Collegio di Rho dal 1779 in avanti si occupò di Sante Missioni, Esercizi
Spirituali ed altre mansioni che gli vennero affidate dai suoi Superiori; in
tale Istituto (é lui stesso che parla in terza persona in una cronologica
autobiografia) perseverò fino al giorno in cui Iddio, per i suoi alti giudizi,
permise la prima soppressione di quel Collegio ordinata dal Governo Francese il
13 ottobre 1798.
Essendo vacante in
quel tempo la Parrocchia di S. Pietro presso Abbiategrasso, per non restare
ozioso, procurò i requisiti di legge ed i voti del popolo per ottenere
l'elezione a Parroco; il che avvenne il 10 Marzo 1799.Ottenuto, dopo
l'istituzione canonica, il possesso della Parrocchia in nome della Repubblica
Francese rimase ad Abbiategrasso per quattro anni non interi. E non avrebbe
avuto cuore di abbandonare l'affetto di quella numerosa popolazione di circa 2.
400 anime, sebbene dispersa in 106 cascine, se le febbri cui andava soggetto più
volte l'anno non lo avessero obbligato a procurarsi un posto in aria più
salubre.
Tale posto fu
Primaluna nella Valsassina benché qui vi abbia scapitato per altri motivi;
parrocchia che ebbe per concorso ammessovi dal Rev. mo Mons. Bonanomi Vicario
Gen. del Card. Gianbattista Caprara Arcivescovo residente in Parigi in qualità
di Legato a latere della S. Sede. Non poté recarsi di residenza in Prevostura
prima del 30 marzo 1803.
Fu il vero buon
Pastore che si preoccupò di levare disordini ed abusi, fedele al dovere sino
allo scrupolo, come lo si può vedere attraverso la sintesi storica. L'Orlandi di
Pasturo, parlando di lui a proposito del passaggio della frazione di Piano dalla
Parrocchia di Taceno a quella di Cortenova, lo dice uomo di una semplicità e
ingenuità incredibile.
Forse l'affermazione
può valere in ordine alla integrità morale non per il resto. Infatti venti anni
di missione in mezzo al popolo ed al Clero, l'esperienza di due Parrocchie
Prepositurali, le notti insonni trascorse al vaglio di documenti a cui Egli
stesso accenna, le sue Memorie pratiche che tradiscono il carattere
inconfondibile del Missionario di Rho - ed a cui si deve la possibilità base
della stesura del presente lavoro - ed altre prerogative dello zelantissimo
Prevosto, come la cura nel redigere più volte lo stato d'anime, provano il
contrario.
Il Crippa, ottimo
sacerdote e diligentissimo infaticabile amanuense, morì in Primaluna il 12
febbraio del 1832, e quivi fu sepolto.
Del benemerito
parroco Giuseppe Rodriguez ho parlato diffusamente nelle note pubblicate nel
1999.
Aggiungo solo un
particolare: nel 1825 lasciando la parrocchia di S.Pietro per la prepositura di
Corbetta,volle regalare alla Confraternita in segno di riconoscenza e stima otto
torciere con impresso il proprio nome, da usarsi nelle solennità.
Riferendomi però a
quegli anni voglio riportare qualche notizia che il Sajni ha riportato nel suo
"Diario Abbiatense".
“Nel 1823 fu messo in
opera il parafulmine dal fabbro abbiatense Pavoni sul campanile di S. Maria
Nuova; ed il filo conduttore fu steso anche sulla sommità del campanile di S.
Bernardino dal quale discende nel pozzo a lui accanto. Da quest'epoca nacque il
proverbio dei campanili legati insieme.
26 maggio 1825.
Giovedì dopo l'Assenzia alla mattina venne giustiziato Luigi Mù di Cilavegna
dell'età di 38 anni circa, benestante, portava una carabina di una sol canna,
assaltava in Lombardia, ripassava il Ticino e fabbricava in Lumellina. Fu preso
dal fittabile Origgi mentre ritornava a S. Donato in carrozza colla figlia e col
cavallante in serpa; aiutato dai villici accorsi, fu strascinato in pretura
legato dietro la carrozza. Giudicato per citazione direttissima, confessò alla
fine d'aver chiesto e d'aver ricevuto pochi soldi; venne condannato a morte
dalla giudicatura di Abbiategrasso. Imperava sul Lombardo - Veneto Francesco I
d'Austria (secondo il proverbio dei tempi era chiamato: «Franceschin con al
couvin», per dinotare la parrucca allacciata dietro la nuca che ancor si
costumava). Oltre la gendarmeria di presidio, vennero qui mandati 50 cavalieri
di campagna, milizia irregolare a guardia dei confini. Tre giorni dopo, alla
mattina, venne tratto dal carcere a mani libere ma ben guardato e condotto a S.
Bernardino per le ultime pratiche religiose amministrate dal prevosto Lattuada;
indi accompagnato dal coadiutore di S. Pietro (i1 coadiutore di S.Pietro era Don
Pietro Vigevano) venne ricondotto in Giudicatura dove un carro da campagna
tirato da due cavalli attendeva il condannato.
Quivi furongli legate
le mani davanti al corpo. La piazza era accerchiata dalla cavalleria, la
gendarmeria accompagnava il paziente dall'un all'altro posto. In Giudicatura le
persone più cospicue del borgo alzarono il condannato che era vestito decente
con marsina corta e lo accomodarono seduto sulla panca del carro, postosi a
lato il coadiutore di S. Pietro per gli ultimi conforti. Il carnefice mandato da
Milano vestito scrupolosamente di nero, era a cassetta col cocchiere. Il treno
si mosse, un drappello di cavalleria precedeva, ai fianchi gendarmi a piedi e
cavalleria, ed altro drappello di cavalleria chiudeva il lugubre corteo. Le
finestre ed i poggioli erano pieni di curiosi, la terrazza della casa del dottor
Moro era gremita di signori e signore, i monelli corsero di filata al luogo del
supplizio e si accapparrarono tutti gli alberi all'ingiro. La fossa era
piantata nella località detta il Crocione sulla strada Chiappana, essa rimaneva
sull'angolo della viuzza che mena al Profondo per cassina Fontana. Il condannato
che fermo e tranquillo fece tutto il percorso, quando scorse lo strumento del
supplizio piegò la testa sul petto del buon sacerdote che gli metteva per
testamento il crocifisso davanti agli occhi, come per nascondersi più che gli
fosse stato possibile la vista del patibolo. Quivi trasportato sullo sgabello e
allacciato, venne lanciato nel vuoto. Sotto di sé era aperta una fossa che si
inoltrava nell'angolo del prato.
Rimasti a guardia i
gendarmi, a sera si tagliò il laccio ed il corpo cadde nella fossa, i necrofori
fecero il loro ufficio ed una croce venne infissa in terra su quell'angolo. Col
tempo crebbe costì una piantaggione di pioppi ed in luogo della croce deperita,
si inchiodò una crocetta di legno sul pioppo che corrispondeva al tumulo di
Luigi Mù; in questi ultimi tempi fu atterrata detta piantaggione e con essa la
pianta che portava la crocetta. Tutte le spese di supplizio, compresa la corda
per l'impiccagione, era costume dell'Austria di farle pagare al condannato; così
il governo sardo dovette obbligar la famiglia dell'estinto a saldare la partita
per suo tramite.
La successione dei parroci
di S.Pietro elenca dopo Giuseppe Rodriguez,Giovanni Rota (1826 - 1833) e Fedele
Perego(1834 - 1855). Anche di questi due ho parlato diffusamente nelle, note
pubblicate nel 1999.
Ora aggiungo a riguardo
del parroco Perego un merito particolare per avere lasciato in Archivio
parrocchiale una precisa descrizione dello "Status Animarum" (Stato d'Anime),
dal quale ricavare le famiglie abitanti in parrocchia con il relativo domicilio.
Siamo nel 1834 ed è
interessante confrontare questi dati con i parrocchiani attuali, quando ancora i
sacerdoti in questo periodo, secondo la tradizione ambrosiana passano a benedire
le case dalla parrocchia.
La parrocchia di S.Pietro
era composta da: Sobborgo S.Pietro, Ripa del Naviglio, Cassine.
Il sobborgo comprendeva i
numeri civici dal 214 al 247 dove erano le seguenti famiglie:
Casa rustica del Sig.
Mariani
Casa civile del Sig.
Mariani
Casa rustica del Sig. Don
Siro Cattaneo e relativa casa civile
Casa Pianzola
Casa rustica del Sig.
Carlo Oldani e casa civile del medesimo
Casa del Sig. Foi
Casa delli Sig.ri Gioletta
Casa del Sig. Scotti
Casa dell'Ill.mo Sig.
Conte Anoni
Casa del Sig. Sguinzio
Casa del Sig. Quarti,della
Piattina e un'altra del suddetto
Casa del Sig. Valsuani
Casa del Sig. Pio Gusberti
Casa della Sig.ra Kluzer
Casa Gusberti
Casa del Sig. Radaelli
Casa Parrocchiale
Casa ossia corte rustica
Oldani e altre quattro simili
Casa del Sig. Rovelli
Casa del Sig. Curato
Oldani
Imperial Regia Gendarmeria
Casa Coadiutorale
Casa del Sig. Pietro
Cairati
Casa Pia degli Incurabili
LA RIPA DEL NAVIGLIO
comprendeva le abitazioni
dal N.°252 al 259
Casa del Sig. Avv.to
Sartiranna
Casa del Sig. Calderara e
altra del medesimo
Casa del Sig. Tomasina e
un'altra dello stesso
Casa del Sig. Avv.to Rossi
Casa Besuschio
Casa del Luogo Pio
E' interessante notare
come alcune casate sono scomparse, altre invece dello stesso nome sono tuttora
presenti. In questo elenco non ci sono nomi di fittabili e contadini,questi
erano nelle cascine, di cui presenterò l'elenco la prossima volta.
Notate anche la presenza
di ben due avvocati alla Riva, il che sta a significare che le contestazioni e
le liti c'erano anche allora.
Mi
sto occupando degli elenchi dello "Stato d'anime"conservati in archivio. Quello
che ho pubblicato il mese scorso risale al 1834 ed è stato redatto dal parroco
Don Fedele Perego (1834-1855). Questo è stato da me scelto perchè facilmente
leggibile e riportava quelli redatti precedentemente.
Il
primo “Status Animarum” è quello del parroco Giacomo Crosti (1773-1798) e risale
al 1796 quando il parroco aveva 53 anni essendo morto nel '98 all'età di 55 ed
aveva con sè un servitore, Giacomo Sommaruga di 29 anni.
Per
quanto già pubblicato è doverosa qualche precisazione e aggiunta.
Anzitutto cosa si intendeva per "Sobborgo S.Pietro"?
Comprendeva l'attuale Corso S.Pietro, parte delle attuali via Curioni (fino a
Caprera), via Magenta (fino alla Piattina), e l'inizio di via Legnano (che si
chiamava strada per Robecco). A questo nucleo si aggiungeva il cosiddetto
"circondario" che era formato dalle cascine e abitazioni al di qua del "dosso"
(l'ultimo argine del Ticino), che non erano considerate sobborgo.
Si
trovavano: la cascina Crivella Oldani , la Crivella Balocchi (onde la via
Crivellino), la cascina Antiquaglio, la Pia Casa dell'Annunciata (nota Mario
Comincini che: "il complesso conventuale dell'Annunciata fu alienato dal Demanio
alla Congregazione di Carità di Milano con atto notarile del 18 gennaio 1811,
per essere adibito a sezione maschile della locale Pia Casa degli Incurabili”).
All'epoca di cui sto narrando vi erano, oltre ai ricoverati, il portinaio
Scandella Bernardo di anni 40 con moglie e otto figli. C’erano anche Don
Giuseppe Galli, cappellano provvisorio, e Don Giuseppe Mettica, cappellano
fisso.
Segue
l'Ortaglia dell'Ospedale di Milano, la cascina Triangolo del Sig.Belli,
lavandaio, la casa del Sig. Roveda, lavandaio, la casa del Sig. Belloni,
lavandaio, la cassina Foletta del sig. Giuseppe Chierichetti
C'era
una osteria nel sobborgo gestita dal Sig. Lavini e chiamata "Osteria di
S.Pietro" o "Della Gatta". C'era pure una osteria alla Ripa del Naviglio di
proprietà Calderara e si chiamava "Dell'Isola Bella".
Al di
là del dosso, la parrocchia comprendeva tutti i "cassinaggi" della Valle.
Il
numero di quei cassinaggi presenta qualche difficoltà. Il parroco Carlo Crippa
(17991803) parla di 170, il Perego dice 130, chi scrive ne ha elencate 136.
Comunque alcune sono scomparse, altre hanno cambiato denominazione; con
l'espandersi della città tante sono inurbate; c'è stata poi la divisione della
parrocchia nel 1942, per cui è problematico precisarne il numero. Al prossimo
numero l'elenco.
Tralasciando le "case rustiche" del Sobborgo e della Ripa del Naviglio,ecco
l'elenco delle cascine della parrocchia S. Pietro disseminate nella Valle del
Ticino.
Riprendo dallo "Status Animarum" del 1834 che ripete quello del 1796 e segue
l'ordine alfabetico.
Arconati (cassinello)
Archinti (cassinetta)
Andreona (cassina)
Antiquaglio (parecchie abitazioni)
Baitocco (cassina)
Baraggetta Spinelli (cassina)
Baraggetta Plonni (cassina)
Baraggia Annoni (cassina)
Baraggia Roma (cassina)
Besozza (cassina)
Bellotta (cassina)
Bonellina (cassina)
Boschetto (cassina)
Brunengo (cassina)
Brugina (cassina)
Bertina (cassina)
Baraggia Bonati (cassina)
Crivella Oldani (cassina)
Crivella Balocchi (cassina)
Cassinello del sig.Avvocato Rossi
Colombirolo (cassina)
Cervia (cassina)
Cervia (cassina)
Cambiaghi (cassinello)
Cavallottta (cassina)
Cavallotella (cassina)
Canova Saronni (cassina)
Canova di Sotto del Luogo Pio (cassina)
Canova di Sopra del Luogo Pio (cassina)
Canova del Luogo Pio (cassina)
Cirasola (cassina)
Concordia ( cassina)
Confalonieri (cassinello)
Colombaia (cassina)
Cantagrilla (cassina)
Costa Oldani (cassina)
Castagnole (cassina)
Ciappana (cassina)
Cerina della Mensa (cassina)
Claretta (cassina)
Cerro (cassina)
Casè (cassina)
Doria (cassina)
Ex Convento Cappuccini
Erbieri (cassina)
Foletta ( cassina)
Fornasino (cassinello)
Fornace Coccini (cassina)
Idem
Fenini (cassinello)
Fontana (cassina)
Fraschina (cassina)
Gariboldi (cassinello)
Gabaglia (palazzo civile)
Gabaglia palazzo rustico)
Gusberti (cassinello)
Ginibissa Cambiaghi (Cassina)
Ginibissa Negri (cassina)
Gambarina (cassina )
Gajanella (cassina)
Gajana (cassina)
Gusmara (cassina)
Gennara (cassina)
Gabaglia (cassina inabitata)
Lucca (cassinello)
Mulinetto Saronno
Meraviglia Valsuani (cassina)
Mulino Comune
Mulino delle Monache
Monza (cassina)
Mulino Nuovo
Mulino Nuovo del Sig.Chierichetti
Morosina Bonamori (cassina)
Morosina Cambiaghi (cassina)
Mirabella (cassina)
Meraviglia (cassina)
Montebello (cassina)
Monte Rotondo (cassina)
Nicorini (cassinello)
Orcellera (cassina)
Prinanzina (cassina)
Pianzola (cassinello)
Pestegalla (cassina)
Pestegalla Zacconi (cassina)
Pietrasanta (cassina)
Pinchiroli (cassina nuova)
Poscallone (cassina)
Poscalletto (cassina)
Poscallo Negri (cassina)
Idem (cassina)
Poscallo Besuschio (cassina)
Pizzone (cassina)
Popola (cassina)
Prato Maggiore (cassina)
Panizza (cassina)
Pasta (cassina nuova)
Pratograsso (cassina)
Pazienza (cassina)
Pulesa (cassina)
Pellicera (cassina)
Quintanne (cassina)
Idem (cassina)
Rusca (cassina)
Rondanina (cassina)
Remondada (cassina)
Remondadella (cassina)
Ronchi (cassina)
In località S.Francesco
Casa del Sig.Gabardini
Casa del Sig.Mariani
Cassinello del Sig.Conte Annoni
Casa del Sig.Gittardi
Sora (cassinello)
Scocca Scaccabarozzi (cassina)
Sparmissa (cassina)
Sant'Anna ( cassina)
Stroppino (cassina)
S.Donato (cassina)
Triangolo (3 abitazioni)
Vecchia (cassina)
Valentino (cassinello)
Valperone (cassina)
Tenendo presente quanto sopra, le "cassine"(escluso il territorio Sobborgo e
Ripa) si aggirano sul numero di 110. Ci sono anche 5 mulini.
All'epoca (1796)nella gendarmeria ci sono 9 individui compreso il comandante la
brigata. In parrocchia oltre al parroco c'è un coadiutore don Rocco Marietti e
altri due sacerdoti residenti in casa propria, Don Francesco Repossi e Don
Giuseppe Mantelli.
C'era anche lo "speziale" Biagio Gallieni. Insomma c'era un po’ di tutto.
Tutte
le cascine elencate nella puntata precedente fecero parte della parrocchia di S.
Pietro fino al 1942, quando, alla morte del parroco Paronzini si stabilirono i
nuovi confini parrocchiali tra S. Pietro e S. Maria.
Praticamente tutta la parte Sud della città venne assegnata a S.Maria
(conservando l'interno della Fossa viscontea) e la parte Nord a S.Pietro. Anche
le cascine subirono lo stesso criterio per cui alla parrocchia di S.Maria furono
assegnate quelle derivanti da via-strada Ticino e rimasero a S. Pietro quelle di
strada Prabalò e strada Cassolnuovo.
Una
domanda: come era esercitata la cura d'anime in un territorio così vasto e tante
abitazioni lontane non soltanto dalla parrocchiale ma anche tra di loro?
Ho
gia detto che oltre alla chiesa di S. Pietro c'erano le sussidiarie: S. Rocco
per la Riva, S. Maria Vecchia, che, pur essendo chiesa monastica, aveva una
parte, fuori dalla clausura, destinata ai fedeli, il convento dei Cappuccini,
che aveva il diritto di celebrare le esequie (a questo proposito ecco la
conferma che viene dalla morte del marchese Arconati:
"Giuseppe Arconati ,1686 - 1761, funerato ai Cappuccini venne sepolto
nell'oratorio del suo palazzo,ove si pose la pietra sepolcrale:
D.O.M.
JOSEPHO ARCONATO MARCHIO
XV KAL.DECEMBRIS MDCCLXI
A Dio ottimo massimo e al
marchese Giuseppe Arconati ,15 dicembre 1761)
E
ancora la chiesa dell'Annunciata, essa pure chiesa monastica, ma aperta al culto
esterno. A proposito di S. Rocco non dimentichiamo S. Rocchino, oratorietto
costruito dopo la peste del 1507 per iniziativa di Antonio Sacchi, inserito poi
nel palazzo Sacchi.
C'erano poi, come ho detto precedentemente, le tante edicole sacre disseminate
nelle cascine, affreschi sui muri, quadri appesi, altarini. Voglio segnalare
quello che forse fu l'ultimo edificato: all'inizio del sec. XX, il proprietario
della cascina Scocca costruì la cappelletta di S. Gaetano in memoria del figlio
Conti Gaetano morto a 16 anni. Non dimentichiamo poi che ci si trovava in un
ambiente socio-culturale molto differente dall'attuale.
Il
senso religioso era forte, la popolazione viveva della tradizione dei padri, la
moralità pubblica, a differenza di oggi, era vigilata dalla autorità civile in
collaborazione con quella ecclesiastica, la stessa penuria di mezzi materiali
non permetteva eccessi di vizi (la droga? neanche si sapeva cosa fosse,almeno
negli strati popolari).
In
questo contesto svolsero la cura d'anime a S. Pietro dopo Fedele Perego,
Bernacchi Giovanni (1856/1869), Trezzi Giuseppe (1869/1888), Paronzini Ottavio
(1889/1942). Di Don Paronzini scriverò la prossima volta.
VOLUI
I
vecchi sanpietrini hanno conosciuto e ricordano ancora Don Ottavio Paronzini che
fu parroco a S.Pietro per ben 53 anni, dal 29 settembre 1889 al 15 maggio 1942.
Di lui ho gia parlato abbastanza diffusamente nelle note pubblicate nell’anno
1999; del resto in tante famiglie della passata generazione si conserva una
pubblicazione stampata e diffusa nel 1933 in occasione del suo cinquantesimo di
ordinazione sacerdotale; da lì attingerò altre notizie che pubblicherò in
seguito. Ora voglio richiamare l'attenzione su qualche aspetto meno noto della
sua vita.
Comincio con l'accennare ad un episodio che rivela la sua sensibilità di natura
economica e sociale. L'occasione mi si è presentata da una lettera che ho
ricevuto qualche anno fa e che viene qui di seguito riportata.
Gent.mo parroco,
sono
un ricercatore di storia locale e mi sto occupando di un suo predecessore, don
Ottavio Paronzini, che fu portagonista di uno sfortunato, ma ardito progetto
riguardante la creazione di un'azienda modello a Montegrino Valtravaglia, ai
fini della pubblicazione. Mi servirebbero delle informazioni dettagliate sulla
sua attività di parroco ad Abbiategrasso. Vivo vicino a Roma, ma capito d'estate
e per Natale a Montegrino, paese d'origine di Paronzini. Spero di fare
operazione gradita inviandole il testo del progetto (è l'allegato), spero di
risentirla presto, cordiali saluti,
Enrico FUSELLI
LA
TRASFORMAZIONE DEL MONTE “BEDRONI”
Il protagonista dell'impresa:
don Ottavio Paronzini
Si tratta
dell'opuscolo, stampato a cura di don Ottavio Paronzini, nativo di Montegrino e
parroco di S. Pietro di Abbiategrasso, con cui si proponeva di favorire lo
sviluppo economico del paese di origine, con lo scopo anche di contrastare
l'emigrazione verso paesi stranieri. L'esperienza di don Ottavio Paronzini durò
dal 1913 al 1924; dopo questa data, il complesso di terreni da lui presi in
affitto passò alla "Cooperativa Alpeggio".
Diamo
di seguito il testo, avvertendo che quelli che possono sembrare errori non sono
in realtà tali, ma forme tipiche dell'italiano d'inizio secolo. Ringraziamo i
signori Giulio Moroni, per aver gentilmente messo a disposizione il testo
dell'opuscolo (O. PARONZINI, La trasformazione del monte "Bedroni", Vigevano,
Tipografia e Libreria Pio Istituto dei Derelitti, 1914), e Mariangela Rinaldin,
per aver fornito la fotografia di don Ottavio Paronzini.
LA
TRASFORMAZIONE DEL MONTE “BEDRONI” ( 1 )
Il motivo
A
Montegrino sul Lago Maggiore, come in moltissimi paesi della provincia comasca,
è invalsa da tempo la consuetudine della emigrazione temporanea, specialmente
nella Svizzera, Francia e Germania. Un tale fatto, se da una parte è
considerevolmente vantaggioso pel denaro, che dall'estero s'introduce in patria,
dall'altra è certo un gravissimo danno morale, per la innegabile corruzione del
costumi di cui è causa. Padri di famiglia che per circa 7 mesi lasciano la
propria casa, giovani che per altrettanto tempo dimorano in paese straniero
senza guida, è troppo facile diventino preda del generate pervertimento. Ed i
fatti lo provano duramente. Per non parlare del casi, per fortuna non troppo
frequenti, di uomini che lontano si formano una seconda famiglia, quanti giovani
per anni e anni non si fanno più vivi ai loro vecchi e bisognosi genitori o
ritornano alle loro case con un piccolo gruzzolo di denaro, ma anche con un
enorme bagaglio di idee sovversive, socialisti e magari nichilisti furibondi,
rovinati di anima e di corpo!
Eppure mentre Gaetano Negri asseriva che la proprietà quanto più è piccola,
tanto meglio avvince il cuore e difende dal socialismo a Montegrino sono quasi
tutti piccoli proprietari.
Fu
coll'intendimento di concorrere in parte a diminuire tal piaga nel mio paese
nativo, che volsi l'animo alla trasformazione del monte delle Betulle,
comunemente chiamato "i Bedroni". Pensai. Perché tutti gli anni tanti miei
compatrioti devono lasciare la loro famiglia e mangiare il duro pane straniero?
perché le nostre terre, pur abbastanza fertili, devono essere coltivate solo dai
vecchi e dalle donne? perché i nostri monti devono restare sempre deserti e
quasi infruttuosi? E osservai. Alla Svizzera vicina, come potei personalmente
rilevare nel duplice viaggio compiuto attraverso di essa, il pascolo e
l'allevamento sono sorgenti di lauti guadagni; il nostro governo dà forti
incoraggiamenti e premi agli allevatori; enorme è la ricerca di tori e bovine,
di buona razza.
Orbene la Provvidenza ha dato a Montegrino un tesoro finora nascosto,
l'estesissima sua montagna, un vero Eden prealpino. Innumerevoli sorgenti
d'acqua e più d'un metro di terreno coltivabile la rendono straordinariamente
fertile, una completa assenza di burroni la fanno assolutamente sicura,
l'accesso dovunque comodissimo, facile il percorrerla in ogni senso. E tanta
abbondanza è di proprietà del Comune, e tutti i cittadini hanno diritto al
libero pascolo. Di maniera che ogni famiglia potrebbe allevare sul fondo
comunale per circa 7 mesi all'anno 2 o 3 vitelli di buona razza e rivenderli poi
con tale guadagno, che il lavoro all'estero di altrettanti mesi non potrebbe
certo eguagliarlo. E così in breve giro d'anni si potrebbe, usando buoni
riproduttori, fare di Montegrino una piccola Schwyz lombarda. (continua)
LA TRASFORMAZIONE DEL MONTE
“BEDRONI” (2)
All'opera
Riflettendo però che assai difficile sarebbe rompere
la corrente migratoria e l'abitudine inveterata di trascurare i fondi per gli
stabilimenti, se l'evidenza dei fatti non venisse in aiuto, pensai di seguire
l'esempio del Divin Maestro, che incominciò prima a fare, poi a insegnare.
Esposi dapprima il mio progetto di prendere in affitto parte della montagna
comunale all'egregio sig. Sindaco, Luigi Pontevia, da poco creato cavaliere in
occasione dell'erezione d'un monumento al nostro illustre concittadino, il
pittore Giovanni Carnovali, detto il Piccio(1). Uomo intelligente egli intuì
subito il gran bene, che ne poteva derivare al paese e l'approvò caldamente.
Allora non trovando esempi né in libri né in giornali agricoli di simili
contratti, dovetti lungamente lambicarmi il cervello per stenderne il modulo.
Base della locazione è il pagamento al Comune di L. 500 annue, l'impianto ogni
anno dalle 3 alle 5 mila piantine, fornite sul posto dai vivai governativi
gratuitamente; la cessione senza compenso al Comune, scaduto l'affitto, d'ogni
fabbricato e manufatto. Il contratto dura 25 anni, è rescindibile ogni anno per
parte del conduttore, che può anche subbaffittare e far uso del legname della
montagna per qualunque
costruzione.
L'appezzamento preso in affitto comprende tutta all'ingiro la parte più alta
della montagna, la cui vetta ai Bedroni, raggiunge i 1000 metri sul livello del
mare, coll'estensione di circa 350 ettari, dei quali la metà almeno è senza
piante e senza bosco. Onde meglio dirigere l'impresa, senza mancare ai miei
doveri di Parroco a S. Pietro in Abbiategrasso, mi aggiunsi due soci. Ma ardui
quasi sempre sono gl'inizi d'ogni impresa né pronti i guadagni: fui lasciato
solo e ne sono ben contento per la completa libertà acquistata. In paese però
per opera degli immancabili sobbillatori, nacque una fiera opposizione. Vi fu
persino un cotale che scrisse alla Prefettura di Como prospettando il pericolo
che io intendessi ricoverare sui Bedroni un convento di frati espulsi dalla
Francia. Ma il Sindaco ed i consiglieri, con fermezza tanto più lodevole quanto
più rara, seppero tener testa alle inconsulte proteste e dimostrazioni popolari;
il contratto fu approvato dall'autorità tutoria il 18 Maggio 1911 ed il Dott.
Reggiori lo fece registrare a Luino il 7 Giugno dello stesso anno.
I primi passi
Fu
prima mia cura incendiare una parte del pascolo, tutto orribilmente infestato da
felci gigantesche, roveti, ginestre ed eriche, che lo ricoprivano letteralmente.
Molte volte mi fu ripetuto che l’incendimento non giova a liberare un terreno
dalle male erbe e piante. A me pare invece di dover distinguere dicendo:
pretendere tal miglioramento unicamente dal fuoco è erroneo; pretenderlo dal
fuoco,
combinato con altre opere supplettorie è conforme a ragione, a pratica, a
scienza. Quando non si trascurino le concimazioni, l'estirpazione degli arbusti
e dei rovi, l'abbattimento ai primi di Giugno delle felci, la monticazione di
numerose mandre, specialmente di pecore, è innegabile che l'azione del fuoco
appiccato in tempo e giorno opportuno, ben guidato e custodito sarà sempre assai
utile, anzi in molti casi necessaria, come nei terreni simili a quelli della
montagna delle Betulle. Utile perché la fortissima quantità di cenere, che
rimane sul terreno, contenendo circa 35 0y0 di calce, la quale è riconosciuta
indiscussamente come il concime più efficace dei terreni umosi, serve
mirabilmente a modificarne la costituzione chimica, a scomporre la materia
organica, a rendere assimilabile l'azoto, a saturare l'acidità, a diminuire la
compatezza, a favorire l'assorbimento dei perfostati, a mettere in libertà la
potassa. Senza contare poi l'altro importantissimo vantaggio di far scomparire
definitivamente l'erica, i roveti e gli arbusti. Necessaria perché lo strato di
10, 15, 20 centimetri di felce secca e di erica impedisce all'erba di crescere
ed alle bestie di brucarla, e perché sarebbe ingiusto pretendere il trasporto in
montagna della enorme quantità di calce occorrente.
Sui
Bedroni il peggior nemico è la felce, che per avere profondissime radici,
rinasce anche dopo il fuoco. Ma io non dubito punto che coi lavori sopra
accennati e 4 0 5 incendimenti successivi si potrà aver ragione anche di essa.
Sembrami infatti di poter fare questo ragionamento: la felce è una pianta
selvatica, che per prosperare abbisogna di terreno selvatico; se noi miglioriamo
il terreno colla calce, la felce dovrà naturalmente ritirarsi. Del resto anche
il Bollettino dell'Istituto internazionale d'Agricoltura di Roma, mesi sono,
annoverava l'incendimento come uno de’ mezzi più efficaci pel miglioramento de’
pascoli alpini. Finora tale operazione sull'intiero pascolo di Montegrino fu
eseguita una volta sola. E l'effetto fu un visibilissimo aumento di erba, uno
sviluppo più basso e rado delle felci, la scomparsa totale dell'erica e di molti
rovi ed arbusti. Nell'ultimo parziale incendio del Marzo 1912 il fuoco sfuggito
abbrucciò poche piante di bosco privato e comunale. Ma non fu mia la colpa, e
forse il tempo più galantuomo degli uomini si incaricherà di rivelare i
responsabili interessati. Basti dire per ora che il processo elevatomi cadde per
inesistenza di reato; che il brigadiere delle guardie forestali di Cunardo,
prima del suo rapporto incolpantemi, steso senza approfondire le ricerche, ebbe
a dire "è impossibile che sia stato il prete"; che il Vice Ispettore di Varese
sul posto, dopo pochi giorni, si
manifestava convinto dell'assoluta mia innocenza; e dello stesso parere sono
pure il Sindaco e quanti del paese conoscono uomini e cose. Del resto vidi io
medesimo, sebbene non potei riconoscere per la lontananza, chi appiccava il
fuoco. Ed è pure degno di nota che il fuoco fu appiccato al di sotto e fuori
della zona della mia affittanza; in luogo quindi dove non poteva arrecare alcun
vantaggio a me, ma solo ai confinanti, che sono tra i più furiosi avversari
della mia impresa montana. (continua)
LA TRASFORMAZIONE DEL MONTE
“BEDRONI” (3)
La
strada d'accesso fu il secondo mio pensiero, poiché le strade sono le vene del
commercio e della vita. La volevo carreggiabile, ma durante la mia assenza fu
costruita solo mulattiera fino al principio dell’appezzamento concessomi in
affitto, circa 3 chilometri. Da questo punto fino al luogo già scelto per la
costruzione della casa e della stalla, io stesso con un solo giornaliero e in
una sola giornata, tracciai colle paline quei due chilometri di ridente e comoda
strada carrozzabile, che fu poi tosto praticata.
Quindi misi mano alla fabbrica della Casa d'abitazione su disegno dell’ora
defunto capomastro Pontevia Giuseppe, che mi fu sempre largo d’assistenza e di
consiglio. Ed essa spuntò come un fungo solitario sul leggero pendio di una
splendida conca, donde si guarda di fronte la Valganna col suo Poncione ed il
suo laghetto; più a destra lo scoglio severo ove s’annida la Madonna del Monte
con a fianco il Campo dei fiori; e sotto la Valcuvia colla sua vedetta ardita,
il S. Martino. È a due piani e misura 5 x 8: l’ho battezzata: “Alpe del
Risorgimento”. Avendo osservato poco più sopra una infossatura acquitrinosa,
feci praticare degli scavi, che misero in luce una sorgente perenne di ottima
acqua, che con un tubo interrato trasmisi fino dinnanzi alla tettoia, dove
costruii un abbeveratoio provvisorio, lungo 8 metri. E simile a questo un altro
ne costrussi in altra parte del pascolo. A pochi metri, spianato il terreno,
edificai la tettoia pure provvisoria, in aspettativa della stalla, pel ricovero
della mandra. È lunga 30 x 4; le colonne sono di legno; la copritura è di
lamiera zincata, de’ quattro
lati, tre sono difesi da un assito, uno da spranghe di legno. In Agosto su vasta
porzione di pascolo feci abbattere le felci colla falce, ricavandone però scarso
risultato, perché questa operazione, al dire dei pratici, dev’essere eseguita
quando le felci sono alte appena 10 o 15 centimetri, ottenendosi allora di
sottrarre gli umori vitali al rizoma, che muore. Anche ai primi di Giugno di
quest’anno 1913 inclusi nel contratto per la monticazione di 400 pecore,
l’abbattimento delle felci; ma i pastori che dimorarono sul monte 20 giorni non
mantennero il patto. Feci pure eseguire l’estirpazione de’ roveti e degli sterpi
abbrucciati nell’incendimento antecedente; operazione che trovo assai più facile
che non sui roveti e sterpi ancora vitali. Su parte dell’appezzamento ove furono
tagliate le felci, feci anche la concimazione chimica con 200 lire di perfosfato
minerale ad alto titolo, fornitomi per metà gratuitamente dalla Cattedra
Ambulante d’Agricoltura di Como. L’effetto tuttavia fu poco notevole; credo
avrebbero agito di più le Scorie Thomas, per la calce che contengono. Ai primi
di Luglio del 1911 come del 1912 si incominciò l’alpeggio, il primo anno con 84,
il secondo con 106 capi bovini. Furono lieti gli inizi; le bestie erano piene di
vigore e molto in carne; ma poi scoppiò l’ematurie o pisciasangue, nel primo
anno dopo 50 giorni colla perdita di una sola manza olandese, nel secondo dopo
un solo mese colla perdita di 6 manze, 5 nostrane e una olandese. Taluni autori
attribuiscono la terribile malattia che mena strage in quasi tutti i monti alla
ingestione delle felci secche; altri ad una mosca chiamata zecca; altri alla
forte infiammazione prodotta dalla indigestione causata dalla estrema avidità
colla quale le bovine della pianura nei primi giorni di monticazione brucano le
gustose erbe del monte. Di questa ultima opinione fu pure l’egregio Dott.
Cominotti della Scuola Veterinaria di Milano, che, da me chiamato, venne
sull’alpe a studiar la malattia ed a prendere il sangue di una manza morta e di
una infetta. Anche i fratelli Vittadini di Milano, distinti agricoltori e
allevatori accettarono questa diagnosi. Nei primi anni che essi conducevano la
loro splendida mandra alla monticazione sulla propria alpe della Valsassina,
perdevano annualmente sempre 10, 15, 20 capi per ematurie. Dopo infinite prove,
adottarono il sistema di limitare il tempo del pascolo, in maniera che ne’ primi
giorni le bestie smettessero di mangiare con un po’ di fame e prolungando poi
gradatamente l’orario fino a lasciarle mangiare a sazietà. L’assuefazione
all’erba montana, diminuendone la morbosa appetizione, eliminò naturalmente il
pericolo della esagerata ingestione colla conseguente indigestione,
infiammazione ed emorragia. Così arrivarono ad impedire quasi completamente il
fatale ripetersi dei casi di mortalità per ematurie. Allo scoppiare della
malattia, io avevo esperimentato le limonate con bicarbonato di soda,
suggeritemi dal valente veterinario tedesco di Luino Dott. Urlemann; avevo
provato a gettar abbondante linosa negli abbeveratoi. Ma tutto era stato inutile
e avevo dovuto scaricar
l'alpe.
È
provato invece dalla pratica che le pecore non vanno soggette a questa
infezione. Il Dott. Cominotti infatti, inoculato il siero del sangue di una
bovina morta per ematurie a una vitella e a due pecore, ebbe morta la vitella e
immuni le due pecore.
Infine nel 1913 sulla proprietà comunale, non però nell’appezzamento affittatomi
impiantai 6 mila piantine, 5 mila larici e mille castani innestati forniti
gratuitamente dai vivai governativi. E l’impianto fu eseguito con uno strumento
nuovo pe’ nostri paesi, col foraterra, che è un grosso trivello, provveduto
presso l’amministrazione della “Famiglia Agricola” di Brescia. L’attecchimento
riuscì straordinariamente bene; poche piantine fallirono, sebbene la stagione
dell’impianto fosse motto avanzata.
L’avvenire
È
per verità nelle mani di Dio; ma un po’ anche nelle nostre; tanta che si dice
“chi s’aiuta, Dio l’aiuta”. Quello che ho finora compiuto è già qualche cosa, ma
poco davvero in confronto di quello che mi sta in mente ed è necessario di
compiere. Innanzi tutto per la bonifica del pascolo occorre l’incendimento. Io
mi impegnerò a indenizzare tutti i danni, che potessero avvenire per una
eventuale fuga del fuoco, e ad eseguire quelle altre disposizioni che
l’Ispettorato forestale e la Cattedra d'Agricoltura, trattandosi di pascolo,
volesse però impormi, ne’ limiti della mia potenzialità finanziaria; ma senza
l’aiuto del fuoco io dovrei deporre ogni pensiero di proseguire. La casa
richiede ancora un muro di divisione nel piano terreno e nel superiore, parecchi
serramenti, il soffitto, tavolo, sedie e attrezzi di cucina e di dormitorio. Tra
la casa e la stalla dovrà trovar posto un locale per rimessa, ripostiglio, e
scala d'accesso al piano superiore con ritirata. Sufficientemente ampia per
almeno 100 capi di bovine per ora, e in posizione di poter essere allungata la
stalla dovrà essere costruita in muratura, con pilastri e travature assai
robusti per resistere alle nevicate ed ai venti. Si potrà approfittare delle
lamiere zincate che ricoprono 1’attuale tettoia provvedendo il rimanente.
L’ampiezza sarà di metri 40 x 8. In fondo alla stalla, dalla parte opposta alla
casa il fienile per una riserva abbondante di fieno, da raccogliere nelle
vicinanze cintate della casa.
La
Concimaia in muratura coll’unico pozzo per le orine si troverà in fondo alla
parte più bassa della stalla.
Un
Pollaio per dar uova agli uomini di servizio.
Una
Conigliera per dare ai medesimi un po’ di carne.
Un
Orto Cintato per fornire loro la verdura vanno costruiti d' intorno alla casa.
Un
Crotto o cantina internata nel monte per accogliere vino, birra, latte, anche
pei turisti, e guadagno degli uomini di servizio, sarà formato poco discosto
dalla casa.
Nella
valletta vicina e sotto alla casa stessa, colla leggera spesa di un argine sul
lato inferiore, potrà essere formato un Laghetto di metri 50 di lunghezza, 20 di
larghezza, 5 di profondità, raccogliendo l’acqua dell’abbeveratoio, ove allevare
buoni pesci pei pastori.
Sulla
linea di confine dove è più facile lo sconfinamento delle bestie alpeggianti è
necessaria una Siepe in vivo.
A
giusti intervalli e in diversi punti del pascolo si costruiranno 6 o 7
Abbeveratoi in muratura o cemento, raccogliendo le acque delle numerose
sorgenti, onde possano essere bevute non troppo fredde e ben pulite. Colle
piantine fornite dai vivai governativi si dovranno formare vari Meriggi o
boschetti ove raccogliere le mandre di giorno, nelle ore più calde, e magari
anche di notte per miglior concimazione, con attorno forti siepi di sicurezza
ovvero steccati. Partendo dalla sinistra della “Baita” sopra il bosco dei faggi
verso la fontana detta “Foritt” esiste un Esteso bosco improduttivo di ontani
selvatici. È necessario abbrucciarlo ed estirparlo per ridurlo a pascolo
eccellente crescendovi l’erba a dismisura e potendosi facilmente irrigare. Nella
splendida conca, che si distende sopra e sotto la casa, passati gli anni
dell’incendimento, potrà essere impiantato, a scopo industriale, Un vasto
pometo, il cui prodotto troverebbe facile smercio, per la fabbricazione del
sidro, nella vicina Svizzera. L’attachimento e la fruttificazione non
mancherebbe, come lo dimostrano le piante di meli che naturalmente e
spontaneamente crescono e fruttificano.
Pei
cacciatori formerò 3 boschetti su diversi posizioni di tamarindi selvatici,
ginepri e taxus baccate.
Anche
la strada potrebbe ridursi tutta careggiabile fino al paese colla spesa di circa
5 mila lire. La fiancheggerei, nel percorso della mia affittanza, con alberi di
castano, onde ricavarne castagne da ridurre in farina per nutrimento de’ futuri
vitelli d’allevo; al di sotto fino al paese con piante resinose alternate con
tigli, a vantaggio dell’igiene e dell’apicoltura. Ogni anno saranno impiantate,
come dal contratto d’affitto, dalle 3 alle 5 mila, la media cioè di 4 mila
piantine, fornite dal governo. Anzi nello scorso 1912 avevo proposto al Comune
di distruggere gli improduttivi boschi di noccioli, che sono ne’ confini della
mia affittanza, impegnandomi a ridurli a pascolo alberato colle piantine
governative. Ma la mia vantaggiosa dimanda fu respinta: si preferisce 5 oggi che
50 domani. La ripeterò, spero con esito migliore, anche pei tagli nuovi.
Termina la presentazione del progetto a favore del paese nativo di Montegrino
da parte di Don Ottavio
Paronzini.
LA TRASFORMAZIONE DEL MONTE
“BEDRONI” (4)
I vantaggi
Quale
immenso vantaggio pel Comune di Montegrino, se io, efficacemente appoggiato,
giungerò al compimento dei miei progetti!
Dopo
25 anni possederà un’alpe modello da affittare a ben alto prezzo, tanto da
esentare i suoi contribuenti da ogni tassa.
Sul
terreno pubblico, oltre la casa, la stalla, gli abbeveratoi, la strada e le
altre costruzioni prospereranno circa 100 mila piante di valore commerciale. Le
sue casse si saranno rimpinguate con 12.500 lire.
E
l'industria della villeggiatura, pur tanto lucrosa ed ora appena nascente e poco
favorita, troverà una potente attrattiva nella facile, sana e panoramica
passeggiata al monte. Inoltre la benefica trasformazione operata sull’alto del
monte, influirà spero efficacemente, a indurre le autorità comunali,
provinciali, governative a mettere mano anche alla trasformazione della parte
inferiore, almeno di quella che guarda il paese.
È un
appezzamento di parecchie centinaia di ettari di terreno eccellente, che ora a
mala pena dà scarso e gramo pascolo a 40 o 50 mucche, mentre ridotto a pascolo
alberato, potrebbe abbondantemente nutrirne un buon migliaio nel tempo della
monticazione.
II
mio intendimento pratico é questo: coi mezzi e le opere sopra indicati
migliorare il pascolo dei Bedroni, esercitandovi per qualche anno esclusivamente
l’alpeggio; poi instaurarvi l’industria dell’allevamento, specialmente di
torelli di razza sceltissima, promovendola anche tra i privati.
Avrà
buon esito la mia impresa? Profitterà l’esempio mio ai miei compatrioti?
Me
l’auguro e lo spero, anche per l’aiuto di chi può comprendermi, non tanto
nell’interesse mio, che senza tanti pensieri vivrei più tranquillo, quanto nel
pubblico interesse morale e civile.
Abbiategrasso, 4 Dicembre 1913.
Sac. Ottavio Paronzini
Parroco di S. Pietro in Abbiategrasso.
Bella la conclusione e l’auspicio di speranza di Don Ottavio, ma il progetto,
per vari motivi, non si è realizzato.
Certamente avrà lasciato Don Paronzini deluso e mortificato, senza però aver
tolto a lui la voglia e la grinta di continuare a fare il parroco a San Pietro.
Di
quel progetto non si parlò più; prova ne sia che non ne fece nessun accenno sul
Cronicon parrocchiale
L'opuscolo da me pubblicato nel 1999 terminava con un riferimento a Don Antonio
Gioletta, sacerdote nativo di S.Pietro e qui deceduto nel 1900, lasciando per
testamento la casa paterna di Corso S.Pietro alla Parrocchia.
Voglio adesso riferire un particolare che lo riguarda in quanto parroco di
Cassago Brianza.
Gli
storici non sono ancora riusciti a identificare la località indicata da
S.Agostino come "Rus Cassiciacum" Chi propende per Cassago Brianza, chi invece
per Casciago nel Varesotto. E' una disputa che dura tutt'ora tra gli specialisti
agostiniani. Nel "Rus Cassiciacum" Agostino si è ritirato per prepararsi al
Battesimo, ospite di un tal Verecondo proprietario di una villa di campagna.
Un punto di favore per Cassago è la presenza di reperti archeologici che
dimostrano un insediamento romano, ma per noi è interessante una lettera
indirizzata a Don Gioletta da parte
di
Mons.Luigi Biraghi e conservata nell'archivio parrocchiale di Cassago. Trascrivo
dal periodico "Terra Ambrosiana" il seguente brano:
Agostino lascia poco ad intendere, per quanto riguarda l'identificazione della
località, favorendo la nascita di numerosissime ipotesi. La più famosa disputa
sorta al tempo del Biraghi fu quella che lo vide in contrapposizione perfino al
parere di Alessandro Manzoni. Quest'ultimo, che aveva candidato un paese del
Varesotto, Casciago, si ricredette - come attesta la documentazione conservata
nell'archivio parrocchiale di Cassago - convinto dalle argomentazioni prodotte
dal sacerdote lombardo che ben conosceva la zona, poiché accompagnava
abitualmente il vescovo Romilli durante le visite pastorali: fu proprio a
Cassago nel 1850, dove ispezionò con cura il territorio e la parrocchia.
Nell'archivio parrocchiale di Cassago è conservata anche una sua lettera del
1877 indirizzata al parroco del paese, don Antonio Gioletta, che contiene
l'iscrizione di un'epigrafe a testimonianza della memoria del soggiorno di
Agostino nella villa di Verecondo: «In fine dal mio libro S. Agostino a Cassago
ho raccozzato l'Epigrafe da mettersi in qualche muro a perpetua memoria di S.
Agostino a Cassago». L'intento del Biraghi era quello di sottolineare che «il
pensieroso S. Agostino fu qui, qui pregava, qui parlava di Dio, qui passeggiava
pei colli...».
L'iscrizione dell'epigrafe raccomandata dal Biraghi vide la luce solamente nel
1986: fu collocata alla base del monumento dedicato a sant'Agostino e alla madre
santa Monica che tanta parte ebbe nella conversione del figlio, nella ricorrenza
del XVI centenario del soggiorno del Santo in questo luogo.
Ecco
il testo latino:
VERECUNDO
MEDIOLANENSI ET CIVI GRAMMATICO
AURELIUS AUGUSTINUS
RURI EIUS CASSIACO FERIATUS
UBI AB AESTU SECULI REQUIEVIT
IN DEO
OB EGREGIAM ERGO SE HUMANITATEM
A MICI F A MILIA RISSIMI
M.F.
VALENTINO AUG. III ET EUTROPIO
COSS.
La
traduzione
A VERECONDO
CITTADINO MILANESE E MAESTRO DI
GRAMMATICA
AURELIO AGOSTINO
SOGGIORNO’ NELLA DI LUI VILLA
RUSTICA A CASSAGO
DOVE STACCANDOSI DAL RIBOLLIRE
DEL SECOLO
MEDITANDO IN DIO SI RIPOSO’
PER L’EGREGIA OSPITALITA’ A LUI
DIMOSTRATA
GLI AMICI PIU’ INTIMI POSERO A
FELICE MEMORIA
SOTTO I CONSOLI VALENTINIANO
AUGUSTO III ED EUTROPIO
NB.
Il Biraghi, estensore della lettera inviata a don Gioletta, è Mons. Luigi
Biraghi (1801 - 1879), esperto in archeologia cristiana; sulla sua indicazione
avvenne il ritrovamento della tomba di S. Ambrogio nella basilica ambrosiana. Fu
dichiarato beato nel 2006.
VOLUI
Discorrendo del parroco Paronzini, non posso tralasciare di accennare al
fratello, pure prete, Don Giovanni.
IL
volume “Il Collegio Rotondi di Gorla Minore -1599/1999” nell'elenco dei docenti
scrive:
"Paronzini Giovanni, nato a Montegrino Valtravaglia nel 1846, ordinato nel 1869.
1869/1920 insegnante di lettere nel collegio. 50 anni di sacerdozio e 50 anni
trascorsi nelle aule scolastiche educando svariate generazioni al sapere e alle
virtù cristiane. Morto nel 1920".
Don
Giovanni, maggiore d'età di don Ottavio, fu utilissimo al fratello nei lavori di
restauro della chiesa di S.Pietro, sostenendolo e incoraggiandolo per lo
snellimento dei pilastri che sorreggono la
cupola,contro il parere della Sovrintendenza, che ne temeva il crollo. Don
Giovanni con l'aiuto dei docenti del Collegio, insegnanti di matematica e
fisica, convinse Don Ottavio a proseguire nel suo intento.
Voglio anche qui riportare il ricordo stampato alla morte di don Giovanni
Paronzini.
Per
una certa assonanza di nomi,avendo nella puntata precedente fatto un accenno a
don Antonio Gioletta,voglio riportare dal volume "PRODIGI" della Società
Storica Abbiatense, un profilo su un altro prete nativo di Abbiategrasso di nome
Gioletta.
DON GIUSEPPE GIOLETTA
Sul
piano delle credenze e dei rituali legati ai preti, va ricordata la figura di
don Giuseppe Gioletta (1825-1893), cappellano a Oggiono, di cui sopravvivono
poche ma significative memorie, nella pratica e nel racconto di alcune persone.
Esiste, nel cimitero del paese, un piccolo monumento "eretto colle spontanee
offerte del popolo" dedicato a questo prete nato ad Abbiategrasso "che per 42
anni cappellano benedisse e beneficiò a tutti". Fino al 1994, quando la
posizione del monumento fu consolidata, camminando nel viale centrale del
camposanto, ci si accorgeva della pendenza all'indietro che caratterizzava la
parte montante solamente di questa costruzione. Si trattava dell'effetto di
un'abitudine ormai secolare, che poche persone ancora mantengono, di appoggiare
al monumento di don Gioletta, specialmente la schiena, ma anche un ginocchio o
la testa, per ottenere una guarigione, un miglioramento del loro stato di salute
o anche una tutela preventiva.
Alcuni di coloro che praticano questo semplice rito non ricordano neppure il
nome di questo prete, di cui conoscono la tomba per la pratica tramandata dalla
tradizione di famiglia ma di cui non sanno nulla. Del resto, al di là
dell'elogio presente nell'epigrafe, pare non siano rimaste tracce scritte
dell'opera di questo prete insolito. Poche e frammentarie sono le notizie
raccolte su Gioletta dalle fonti orali: lo si descrive come un cappellano che
aveva dato tutto ai poveri, e che perciò dormiva su una panca; altri lo descrive
come dotato di senso pratico, "non un mistico". Aveva fama di taumaturgo, anche
per il bestiame, e si chiedeva il suo intervento in caso di tempeste. Si diceva
che fosse il diavolo a fargli volare il cappello con delle folate di vento, ma
in questi casi il prete sentenziava sicuro che "il vento me l'ha tolto, il
vento me lo riporterà". Tutto ciò confermerebbe l'immagine di colui che, in
virtù del suo potere sacro, sa contrastare il maltempo. A conferma di ciò si
racconta anche del fatto che quando, alla vigilia di Natale, la salma del prete
giunse da Milano a Oggiono per la sepoltura, improvvisamente smise di piovere e
il cielo si rasserenò.
Questo prete non è certamente una figura isolata nel passaggio tra Ottocento e
Novecento, come dimostrano le ricerche su don Gervasini, il famoso prétt de
Ratanà, che ricorda per vari aspetti don Gioletta: cappellano, oggetto di una
devozione particolare sviluppatasi dopo la morte, capace di fornire protezione
alle malattie del bestiame come don Gioletta, don Gervasini era prodigo di
consigli, non sembrava usare tecniche di ritualità magica, mostrava doti
divinatorie e poteva liberare dalla paralisi.
A
comprendere meglio la figura del parroco Paronzini può servire quanto scrisse
l'allora don Anacleto Cazzaniga, professore in seminario a S.Pietro Seveso nel
1934 in occasione del cinquantesimo anniversario di sacerdozio di Don Ottavio.
APOSTOLO E PADRE
Ci
sono figure così bene definite e chiare - e di solito sono le più belle - che
non si possono mai rievocare senza rappresentarcele come fasciate di una luce
caratteristica che le distingue e ne spiega i diversi atteggiamenti: una di
queste è il nostro parroco Don Ottavio Paronzini.
Basta
pronunciare il suo nome perché tutti pensino ad un caro prete tutto cuore, che
in 50 anni di ministero,
dei
quali 45 passati fra noi, non ha mai fatto soffrire nessuno, ma sempre ha
lavorato per la felicità e il bene di chi sapeva nel dolore.
Si
sono viste a volte tante povere donne col pianto agli occhi e bisognose di
consiglio infilare il suo grande portone, domandare del sig. Curato e, dopo un
colloquio lungo e cordiale, partire con la speranza nel cuore, contente d'esser
state ascoltate; si son sentiti molti uomini, anche non del tutto praticanti,
parlare di lui con venerazione formulando il loro giudizio con questa semplice
espressione: “E' un uomo che ha cura di noi, e ha cuore“
E'
inutile del resto che mi diffonda in tanti particolari dal momento che ciascun
lettore, il quale per quanto poco abbia conosciuto il Curato di S. Pietro
potrebbe portare argomenti e prove: qui voglio accennare solo a due aspetti
della sua simpatica figura che farebbero onore ad ogni sacerdote e che si
spiegano solo alla luce del suo bel cuore.
LA
CURA DEGLI AMMALATI
Ricordo quando ancora aveva il suo vecchio cavallino.
D'inverno e d'estate, di giorno e di notte, sotto la neve o la pioggia o tra le
raffiche del vento, il buon Parroco era costante nelle visite agli ammalati e
per essere più pronto, data la vastità della parrocchia che ha un circuito di 37
km., si serviva di un carrozzino. Noi ragazzi quando uno della famiglia era
ammalato, l'attendevamo impaziente sui margini della strada, e appena ad uno
svolto o attraverso il fitto fogliame delle piante si scorgeva un cavallino, il
suo cavallino, di corsa ne davamo l'annuncio in casa, persuasi che dopo la sua
venuta il malato non sarebbe morto. E lo circondavamo dall'arrivo alla partenza,
noi piccoli senza parlare ma senza mai abbandonarlo, e quei suoi sguardi pieni
di dolcezza e scintillanti dietro le grosse lenti degli occhiali, i suoi sorrisi
sereni ci scendevano proprio giù in fondo al cuore.
Oggi
non ha più il bel cavallino per il quale i giovani delle cascine preparavano
l'erba e il fieno migliore, ma una modesta automobile che però lo trasporta più
in fretta; è già avanzato negli anni, ma la sua fibra robusta e sana gli
permette di continuare sempre la sua opera di bene presso i malati che lo
disiderano tanto, spesso più che il medico, e dovunque passa lascia quel dolce
profumo di Cristo che conforta.
Tutti
lo ricordano nei mesi terribili della spagnola quando in un giorno si sono fatti
perfino sette funerali: ci fu un periodo in cui gli altri preti, colpiti pure
dal morbo, avevano lo spirito pronto ma la carne inferma; il parroco solo,
fiamma vigilante e resistente al turbine, pareva preservato da Dio perché
potesse benedire le fosse, confortare i morenti, salvare la vita a parecchi a
cui non poteva giungere l'opera del dottore. Il popolo che allora viveva lunghe
giornate in trepida angoscia dopo la visita del Curato si asciugava le lagrime e
diceva: « Com'è buono! è un vero padre ».
LO
ZELO PER IL CONFESSIONALE
Chi
dice di amare le anime e di vivere solo per esse, ma poi rifugge dall'ascoltarne
i dolori in confessione e di medicarne con pazienza le ferite, vive di illusione
come chi pretende di essere contadino solo perché volentieri parla di
agricoltura e s'intrattiene con le persone dei campi, ma non vuole assolutamente
dissodare le zolle e spingere i buoi su e giù per la campagna dura: il vero
lavoro del sacerdote è quello che meno appare e che si svolge nel segreto dei
cuori, sia pure con tanta fatica, nel confessionale.
Per
essere pronto a questo lavoro il nostro Curato, fedele alle tradizioni del suo
tempo alla sera si ritira assai presto, ma tra le primissime luci che si
accendono al mattino nelle stanze c'è sempre la sua “perché - dice - il popolo
non può e non deve aspettare“.
Confessa moltissimo resistendo lunghe ore senza uscire, e solo può farsene un
concetto chi conosce la vastità della parrocchia e la scarsezza eccessiva del
clero per giunta imprescindibilmente impegnato il più delle volte
nell'assistenza all’Ospedale e alla sussidiaria di S. Rocco. Talvolta si dice
stanco (e chi non lo sarebbe?) e mostra d'avere qualche scrupolo per non poter
attendere come il suo cuore vorrebbe alle cure di tutto il gregge, ma il popolo
lo conosce e gli vuol tanto bene, e ne sono prove evidenti quel senso di
trepidazione che ha turbato un po' tutti qualche anno fa quando aveva lasciato
capire che intendeva ritirarsi, e più ancora questo suo giorno giubilare, che
tutti i suoi parrocchiani, proprio tutti, hanno voluto grande e significativo.
L'AUGURIO
Col
sole mite di settembre son tornati nei giardini i profumi di tanti fiori, come
se si trattasse d'una primavera rinnovata, e la natura volesse rispiegare le sue
bellezze prima che scendano le brume invernali. Così oggi nel fausto
cinquantesimo del nostro buon Parroco, mentre a lui giungono gli squilli delle
campane a festa, il suono delle musiche e i cori dei giovani e dei fanciulli
risuscitandogli in cuore la primavera fiorente del suo ministero, il giorno
della prima Messa, da tutti i cuori erompe una preghiera: che a lungo molto a
lungo intorno a lui questo fruttuoso autunno d'oro.
DON ANACLETO CAZZANIGA
VOLUI
A conclusione delle
notizie riguardanti il parroco Paronzini voglio riportare una poesia in dialetto
(bosinada) che si trova nel "Diario Abbiatense"(1886/1899) scritto dal Sajni.
L'argomento trattato narra
in forma fantastica una ritorsione nei confronti del parroco. Dopo il 1870
(breccia di Porta Pia), l'autorità ecclesiastica aveva proibito l'ingresso nelle
chiese alla Bandiera tricolore di cui si erano munite le tante associazioni
laiche sorte in quel periodo.
IL fatto: a un funerale
celebrato l'ultima settimana del 1889 nella chiesa di S. Rocco sulla Riva di un
iscritto alla Società 0peraia era stato interdetto l'ingresso alla chiesa della
relativa bandiera.
La tesi, del "Lissander"
(Colombo Alessandro, abbiatense di professione falegname e nelle ore perse
pompiere e accendi lampade) è la seguente "Ste fai sta feura la Bandera? Adess
sta feura tì"
La Bandera
L'era la prima sira
del Milavotcentnuvanta;
la neev la dislenguava
per l'acqua e per remoll.
Un pattusciament de lira
e nebbia scǘra intanta,
a tourna see bagnava
de la pianta fina 'l coll.
O in caàa, o all'ostaria,
chi péu rangiass se rangia;
el Capudanno el faven
ma tutti rittiráa.
Ammenocché non sia
quaidun che per la mancia,
o per douver, passaven
d'urgenza doumandaa.
Oppur comme 'l Lissander (1)
poumpier e lampedée
che ghe touccava andà
intourna a smourzáa i gaz.
Ma lù pover malander
el se imbrounzáa assée,
che quaivolta el se poundava
ai mùr per riò impiastráns.
Se alloura ghe fuss sonn
a la campana del tacca feugh,
o lée pover'Impresa
o lù pover Poumpier;
o insemma tutt dù coubi
a poudeven andà in del Leùgh (2),
le a fass rimett la spesa
lù a fass rifà i douver.
Intanta el se strùsaa goubún fin'in San Peder (3).
L'stava pougiàa 'l mùr del Couléeg in sulla piazza (4),
doundouland la pertega sùl fanal, a risc de roump i veder
ma invecí del rampín l'ha inganciàa la fassa.
L'era drée cascià oun sarach count tùtta la saliva,
quand ghe se presenta lì denanz oun Reverend,
che lù coume Socci Operari se l' peu la schiva:
«S'al veur!» el ghe dis, intant ch'el se fa rent.
«Vegnì là, tegnim su'l pée ch'ho de 'nda in càa».
«Che'l picca, o che'l vousa che ghe dervaran la porta».
«Ma ben che la serva la dorma in found. Anca vousà
le inutil; e mì gho minga l'alba forta».
E Lissander sout vous: « puttost che dat'na man, mha massi.
Te fai sta feura la Bandera? Adèss sta feura tì (5).
La lassàa passà l'Balcon (6) e la benedji l'Palazzi (7),
in gesa a le semper andai, del Quarantott a inchì» (8).
E in del voultass indrée, la tràa na vacca d'oun toupik
che se'l curàat le minga svelt, coul geneuc a tegnil sù,
al valà co i gamb in l'ari, in la neev coume 'n bourik,
impiastrandes tutt i paggn, de stentà cougnoussel pù.
Alloura el se ravveed, di sou penser oun pou cattiv:
«Un dipendent quand al gha oun ourdín, bisogn che l'eseguiss;
tantou pù se in sùl prencipi le zelant, e'l gha 'l moutiv,
e alla testa della Curia, le onn Pastour ch'è staa ben miss.
Dounca và Lissander, preuva jutal s'el poudaravv,
che avess caritatevoul, a le semper oun bouneur.
Peu capitagli a tùcc, de smentegass le ciavv».
Stou bon raggiounament el ghe fors vegnùu del cheur.
La tacca sù la pertega,
la bassa gioù la testa,
la traversáa la Piazza,
E’l se poundáa 'l murett,
desiderand la stecca,
per fenì ben la Festa,
l'ha miss i man sul venter
per fagh el prim basell.
Don Ottavi Paronzin el picca i pée a countra 'l múur (9),
El gha pressa de mountà, ma ghe par doumà ch'el balla,
el ghe mett i man sui spall, per sentì se le sicùr;
count dù salt le già sul cou del poumpier che ghe fa scala.
L'ha sentii ch'el cou'l doundava,
l'ha fáa prest a brancáa 'l pin (10),
senza nanca digh: saludi,
count un salt l'è staa in giardin.
El poumpier la guardáa sù,
ricoumpensaa coumpagnn d'un can,
quand l'ha capj ch'el ghera pù
el gha vousàa: Vilan, Vilan.
Coummé un cavali senza la bria
Per la rabbia de sto fatt,
La nanch guardàa cattegouria:
j'ha smourzàa squáas tucc i gaz.
Tant e tant i lamped piss de nott l'è ciarr trasàa,
ormai sem sueffáa, andà tournou al ciar e scùr,
tardi i pissen e presi in già smourzàa,
i galantom che van a càa, che toucchen taccà i múur.
VOLUI
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