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MESSAGGIO DEL
PAPA IN OCCASIONE DEI FUNERALI Cari fratelli e sorelle, in questo momento desidero esprimere la mia
vicinanza, con la preghiera e l’affetto, all’intera Arcidiocesi di Milano, alla
Compagnia di Gesù, ai parenti e a tutti coloro che hanno stimato e amato il
Cardinale Carlo Maria Martini e hanno voluto accompagnarlo per questo ultimo
viaggio. «Lampada per i miei passi è la tua parola,
luce sul mio cammino» (Sal 118[117], 105): le parole del Salmista possono
riassumere l’intera esistenza di questo Pastore generoso e fedele della Chiesa.
E proprio per questo è stato capace di insegnare ai credenti e a coloro che sono alla ricerca della verità che l’unica Parola degna di essere ascoltata, accolta e seguita è quella di Dio, perché indica a tutti il cammino della verità e dell’amore. Lo è stato con una grande apertura d’animo,
non rifiutando mai l’incontro e il dialogo con tutti, rispondendo concretamente
all’invito dell’Apostolo di essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi
domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 4,13). Lo è stato con uno spirito di carità pastorale
profonda, secondo il suo motto episcopale, Pro veritate adversa diligere,
attento a tutte le situazioni, specialmente quelle più difficili, vicino, con
amore, a chi era nello smarrimento, nella povertà, nella sofferenza. In un’omelia del suo lungo ministero a
servizio di questa Arcidiocesi ambrosiana pregava così: «Ti chiediamo, Signore,
che tu faccia di noi acqua sorgiva per gli altri, pane spezzato per i fratelli,
luce per coloro che camminano nelle tenebre, vita per coloro che brancolano
nelle ombre di morte. Signore, sii la vita del mondo; Signore,
guidaci tu verso la tua Pasqua; insieme cammineremo verso di te, porteremo la
tua croce, gusteremo la comunione con la tua risurrezione. Insieme con te
cammineremo verso la Gerusalemme celeste, verso il Padre» (Omelia del 29 marzo
1980). Il Signore, che ha guidato il Cardinale Carlo
Maria Martini in tutta la sua esistenza accolga questo instancabile servitore
del Vangelo e della Chiesa nella Gerusalemme del Cielo. A tutti i presenti e a coloro che ne piangono
la scomparsa, giunga il conforto della mia Benedizione. Da Castel Gandolfo, 3 Settembre 2012 BENEDICTUS PP. XVI
OMELIA DEL CARDINALE ANGELO SCOLA Duomo di Milano 3 settembre 2012 1. «Voi siete quelli che avete perseverato con
me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato
per me» (Lc 22, 28-29). La lunga vita del Cardinal Martini è specchio
trasparente di questa perseveranza, anche nella prova della malattia e della
morte. Ed ora Gesù as-sicura lui e noi con lui: “Io faccio con te, come il Padre
ha fatto con me”. Per lui è pronto un regno come quello che il Padre ha disposto
per il Figlio Suo, l’Amato. Il fatto che non sia un luogo fisico, a nostra
misura, non ci autorizza a ridurre il paradiso ad una favola. Il Cardinal
Martini, che ha annunciato e studiato la Risurrezione, l’ha più volte
sottolineato. Con parole tanto semplici quanto potenti San Paolo ne coglie la
natura quando scrive: «Per sempre saremo con il Signore» (1Ts 4, 17). Il nostro
Cardinale Carlo Maria, tanto amato, non si è quindi dileguato in un cielo remoto
e inaccessibile. Egli, entrando nel Regno partecipa del potere
di Cristo sulla morte ed entra nella comunione con il Dio vivente. Per questo,
in un certo vero senso, si può dire di lui ciò che Benedetto XVI ha scritto di
Gesù asceso al Padre: «Il suo andare via è al contempo un venire, un nuovo modo
di vicinanza a tutti noi” (cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazaret 2, 315).
Caro Padre, noi ora, con i molti che ci
seguono attraverso i mezzi di comunicazione, ti facciamo corona. E lo facciamo
perché nella luce del Risorto, garante del tuo compiuto destino, sappiamo dove
sei. Sei nella vita piena, sei con noi. Questa è la nostra speranza certa. Non
siamo qui per il tuo passato, ma per il tuo presente e per il nostro futuro. 2. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (Mt 27, 46). Il terribile interrogativo di Gesù sulla croce è in
realtà implorante preghiera. Estremo abbandono al disegno del Padre. E qual è
questo disegno? Che il Crocifisso incorpori in Sé tutto il dolore degli uomini.
Il Figlio di Dio ha assunto tutto dell’uomo, tranne il peccato, a tal punto che
la Sua drammatica invocazione finale abbraccia l’umano grido di orrore di fronte
alla morte per placarlo. Alla morte di Gesù ben si addice la preghiera
del poeta Rilke: «Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte. La morte che fiorì da
quella vita, in cui ciascuno amò, pensò, sofferse» (R. M. Rilke, Das Buch von
der Armut und vom Tode, Das Stundenbuch 1903). Chi muore nel Signore, col
Signore è destinato a risorgere. Per questo la sua morte è un fiorire. La morte
del Cardinale è stata veramente personale perché destinata alla sua personale,
inconfondibile risurrezione, al suo personale modo di stare per sempre con il
Signore e in Lui con tutti noi. Niente e nessuno ci può strappare questa
consolante verità. Neppure la dura, sarcastica obiezione di Adorno che liquida
la preghiera di Rilke come «un miserevole inganno con cui si cerca di nascondere
il fatto che gli uomini, ormai, crepano e basta» (T. W Adorno, Minima moralia,
Einaudi, Torino 1988, 284). A smentirla è l’imponente manifestazione di affetto
e di fede di questi giorni verso l’Arcivescovo. 3. Il Cardinal Martini non ci ha lasciato un
testamento spirituale, nel senso esplicito della parola. La sua eredità è tutta
nella sua vita e nel suo magistero e noi dovremo continuare ad attingervi a
lungo. Ha, però, scelto la frase da porre sulla sua tomba, tratta dal Salmo 119
[118]: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino». In tal
modo, egli stesso ci ha dato la chiave per interpretare la sua esistenza e il
suo ministero.
Perché – aggiunge il Vangelo di Giovanni - la
volontà del Padre è che Egli non perda nulla, ma lo risusciti nell’ultimo giorno
(cfr. Gv 6, 39). Dio è veramente vicino a ciascun uomo, qualunque sia la
situazione in cui versa, la posizione del suo cuore, l’orientamento della sua
ragione, l’energia della sua azione. Dobbiamo però definitivamente superare un
atteggiamento molto diffuso circa il dono della fede. Il nostro Padre Ambrogio a
proposito del Salmo scelto dal Cardinale, afferma: «Per certo quella luce vera
splende a tutti. Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da se stesso
della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori
anche Cristo. Benché possa entrare, nondimeno non vuole introdursi da importuno,
non vuole costringere chi non vuole… Quelli che lo desiderano ricevono la
chiarezza dell'eterno fulgore che nessuna notte riesce ad alterare» (Ambrogio,
Commento al Salmo 118, Nn. 12. 13-14; CSEL 62, 258-259). Affidare al Padre questo amato Pastore
significa assumersi fino in fondo la responsabilità di credere e di testimoniare
il bene della fede a tutti. Ci chiede di diventare, con lui, mendicanti di
Cristo. Dolorosamente consapevoli di portare il tesoro della nostra fede in vasi
di creta, gridiamo al Signore: «Credo; aiuta la mia incredulità» (Mc 9, 24). Questo è il grande lascito del Cardinale:
davvero egli si struggeva per non perdere nessuno e nulla (cfr. Gv 6, 39). Egli,
che viveva eucaristicamente nella fede della risurrezione, ha sempre cercato di
abbracciare tutto l’uomo e tutti gli uomini. Lo ha potuto fare proprio perché
era ben radicato nella certezza incrollabile che Gesù Cristo, con la Sua morte e
risurrezione, è perennemente offerto alla libertà di ognuno. 4. Oggi la Chiesa celebra la memoria del papa
San Gregorio Magno. Dalla sua celebre opera Così il pastore che ora affidiamo al Padre ha
amato il suo popolo, spendendosi fino alla fine.
Nella Chiesa le diversità di temperamento e di
sensibilità, come le diverse letture delle urgenze del tempo, esprimono la legge
della comunione: la pluriformità nell’unità. Questa legge scaturisce da un
atteggiamento agostiniano molto caro al Cardinale: chi ha trovato Cristo,
proprio perché certo della Sua presenza, continua, indomito, a cercare.
5. Facciamo ora nostra di tutto cuore la preghiera del Prefazio di questa solenne liturgia di suffragio: «È nostro vivo desiderio che il tuo servo Carlo Maria venga annoverato nel regno celeste tra i santi pastori del tuo gregge e possa raggiungere la ricompensa di coloro con i quali ha condiviso fedelmente le fatiche della stessa missione». Pensiamo alla lunga catena dei nostri arcivescovi, soprattutto a Sant’Ambrogio e a San Carlo. Caro Arcivescovo Carlo Maria, la Madonnina, l’Assunta, con gli Angeli e i Santi che affollano il nostro Duomo, ti accompagni alla meta che tanto hai bramato: vedere Dio faccia a faccia. Amen. Angelo Card. Scola + Arcivescovo di Milano
SALUTO DEL CARDINALE TETTAMANZI
mi è difficile dire una parola in questo
momento, tante sono le emozioni, tanti i ricordi che si accumulano, tante le
voci ascoltate che si sono riversate in questi giorni come un fiume nel mio
cuore. Sì, mi è davvero difficile parlare.
Il Cardinale Martini mi ha imposto le mani per
la consacrazione episcopale. Lui è stato, per me come per tantissimi altri,
punto di riferimento per interpretare le divine Scritture, leggere il tempo
presente e sognare il futuro, tracciare sentieri per la missione
evangelizzatrice della Chiesa in amorosa e obbediente docilità al suo Signore.
Il cardinale Martini mi ha accolto come suo successore sulla cattedra di
Ambrogio e Carlo consegnandomi il pastorale mentre mi diceva: “Vedrai quanto
sarà pesante!”. Mi è difficile parlare. Eppure vorrei in
questo momento tentare di essere voce di questa Chiesa di cui il Cardinale Carlo
Maria è stato, nel nome del Signore, padre, pastore, maestro, servo,
intercessore, testimone della verità di Dio e della dignità dell’uomo. Che cosa dice oggi questa santa Chiesa di
Milano? Dice: “Noi ti abbiamo amato! per il tuo
sorriso e la tua parola, per il tuo chinarti sulle nostre fragilità e per
il tuo sguardo capace di vedere lontano, per la tua fede nei giorni della gioia
e in quelli del dolore, per la tua arte di ascoltare e di dare speranza a tutti:
a tutti!” .
Dice di nuovo la nostra Chiesa: “Noi diamo
lode a Dio insieme con te: ‘Benedetto il Signore, il Dio di Israele, che ha
visitato e redento il suo popolo’. Noi diamo lode a Dio che ti ha donato di
vivere secondo il tuo motto di Vescovo Pro veritate adversa diligere e che ti ha
chiamato ad entrare ora nella gioia senza ombre attraversando nella fede e nella
speranza la fatica del soffrire e del morire”. “Noi ti abbiamo amato, noi ti amiamo, noi ci
uniamo ora al tuo canto di lode. Continua a intercedere per tutti noi”. + Dionigi card. Tettamanzi Vengono qui riportati alcuni testi tratti
dalle pagine pubblicate nel sito della Diocesi di Milano sul Cardinal Carlo
Maria Martini in occasione della sua morte. UNA VITA PER LA CHIESA Eletto arcivescovo di Milano il 29 dicembre
1979, viene consacrato in San Pietro da papa Giovanni Paolo II il 6 gennaio
successivo; il 10 febbraio 1980 fa il suo ingresso ufficiale nella Diocesi
ambrosiana. Ripercorriamo la sua vita Nato a Torino il 15 febbraio 1927, il giovane
Carlo Maria Martini a soli nove anni comunicò ai suoi familiari la decisione di
diventare gesuita. Terminato il liceo, nel luglio del 1944 conseguì la maturità.
«Sul finire dell’estate – ricordava Maris Martini – Carlo parlò con papà della
sua vocazione e dell’intenzione di entrare in seminario dai Gesuiti. La mamma
invece, sapeva da tempo di questa decisione». Il 25 settembre 1944, entra nella
Compagnia di Gesù, dove compie il curriculum di filosofia e teologia. Il 13 luglio 1952 viene ordinato sacerdote a Chieri (To). Qualche anno più tardi, nel 1958, consegue la laurea in teologia fondamentale alla Gregoriana di Roma con una tesi dal titolo “Il problema storico della Risurrezione negli studi recenti”, proseguendo poi gli studi in Sacra Scrittura, perfezionandoli anche all'estero.
Il 29 dicembre del 1979 Giovanni Paolo II lo
elegge alla cattedra episcopale di Milano e subito dopo, il 6 gennaio del 1980,
viene consacrato vescovo, in San Pietro. Nel novembre del 1980, il vescovo
Martini avvia, a Milano, l’esperienza della Scuola della Parola: il progetto
consiste nell’aiutare il popolo di Dio, in particolare i giovani, ad avvicinare
la Scritture attraverso il metodo della lectio divina. Il 2 febbraio 1983 il
Papa lo crea cardinale con il titolo di Santa Cecilia. Dal 1984 al 1985 è presidente del comitato
organizzatore del convegno ecclesiale di Loreto. Nel 1986, durante la sedicesima
assemblea svoltasi a Varsavia, viene eletto presidente del Consiglio delle
Conferenze episcopali europee (Ccee). Assume tale mandato durante la Pasqua del
1987 e lo mantiene fino al 1993. Nel novembre del 1986, nel corso di un
convegno diocesano sul tema “Farsi prossimo”, viene lanciata l’iniziativa delle
scuole di formazione per un impegno sociale e politico sempre più ampio (a
scuola di carità politica). Il 17 gennaio 1989, riceve la Laurea “honoris
causa”, dalla Pontificia Università Salesiana di Roma per il suo programma
pastorale sull’“educare”. Nel 1997 presiede le diverse manifestazioni
indette per celebrare il sedicesimo anniversario della morte di S. Ambrogio,
patrono della diocesi di Milano. Nell’ottobre del 1999 partecipa come membro al
Sinodo dei vescovi europei. Il 27 ottobre 2000 riceve il premio Principe
de Austrias in Scienze sociali a Oviedo (Spagna). Il 23 novembre 2000 viene nominato da Giovanni
Paolo II, Accademico onorario della Pontificia accademia delle scienze. Il 28 giugno 2002 riceve la Grande Medaglia
d’oro del Comune di Milano.
Il progetto del cardinal Martini è di
riprendere gli studi biblici, questa volta in un luogo speciale a lui molto
caro: Gerusalemme. Nel 2005 ha partecupato come cardinale
elettore al Conclave del 2005 che ha eletto papa Joseph Ratzinger, futuro
Benedetto XVI. L’11 giugno 2006 riceve la Laurea honoris
causa in filosofia dall'Università ebraica di Gerusalemme. Nel 2008, per motivi di salute, il cardinal
Martini ha dovuto lasciare Gerusalemme e rientrare in Italia. Come nuova
residenza ha scelto l'Aloisianum di Gallarate, in provincia di Varese. Nel giugno scorso, in occasione del VII
Incontro mondiale delle Famiglie, ha avuto un breve colloquio con Benedetto XVI. ANNUNCIATORE E TESTIMONE di monsignor Paolo SARTOR Lo ricordano e lo piangono sia persone appartenenti alla Chiesa, sia quanti si definiscono non cristiani o non credenti Un vescovo capace di farsi ascoltare anche da chi non entrava in chiesa. Un pastore divenuto punto di riferimento per molti che non lo avevano mai incontrato di persona. Nelle ore che seguono la scomparsa del card. Carlo Maria Martini colpisce l'ampiezza del cordoglio e il fatto che a piangere il presule siano persone appartenenti alla Chiesa ma anche altre che si definiscono non cristiane o non credenti. Qual è la ragione? Alcuni interventi degli ultimi anni potrebbero far pensare alla sintonia su tematiche che stanno a cuore a tanti. Va però ricordato come negli anni del suo ministero episcopale a Milano Martini sia stato ascoltato e apprezzato anche dai fedeli semplici. Il motivo di questa efficacia comunicativa stava probabilmente in due fattori: l'attenzione a proporre la parola di Dio in modo accessibile, la capacità di farsi percepire in sintonia con i problemi di chi lo ascoltava. Due elementi fra loro non alternativi: piuttosto le facce di una stessa medaglia, le componenti di una stessa figura, quella dell'annunciatore del Vangelo per l'oggi. Cui si può aggiungere la coerenza tra il discorso e la vita, cioè il fatto che nel Martini predicatore, catechista, conferenziere... molti hanno riconosciuto un vero testimone di Cristo. Il lettore della Parola
Molti hanno ascoltato per la prima volta
Martini annunciare il vangelo dopo la sua nomina episcopale e il suo arrivo a
Milano nel 1980. Ma questo è solo il secondo periodo Fin dalla sua seconda lettera pastorale (In
principio la Parola, 1981), l'Arcivescovo insegnava che per annunciare la buona
notizia occorre «manifestare un'accoglienza di essa maturata a lungo nel cuore e
coltivata incessantemente nel quotidiano cammino della fede». E ai sacerdoti
ripeteva che di fronte a un testo biblico «io non devo farmi subito la domanda
"che cosa dirò su questo testo?", ma "che cosa dice il testo?", perché spesso,
ad una prima lettura, non lo capisco. Poi "che cosa dice a me?": e qui sono
necessarie la riflessione e la preghiera, cioè meditare sul testo. Solo a
partire da questa mia esperienza ho qualcosa da dire alla gente». L'interlocutore attento
Spiegava l'allora Arcivescovo che è decisivo
«evitare di rovesciare sulla gente nozioni, vocaboli, metodologie
incomprensibili e di giocherellare su pochi concetti, magari con immagini un po'
affascinanti, che però non sono buona notizia». Martini cercava di far percepire
le letture proclamate nell'assemblea ecclesiale come buona notizia per l'oggi.
La predica come attualizzazione, dunque. Non nel senso che il predicatore debba
far diventare comprensibile con artifici retorici una Parola altrimenti
irrimediabilmente fissata nel passato, ma che egli è chiamato a mostrare come
sia davvero "attuale" e "attiva" la Scrittura proclamata nella liturgia, in
quanto «parola di Dio che opera efficacemente in voi che credete», come insegna
san Paolo nella prima delle sue lettere (1Ts 1,13). E' non è un caso che i
maggiori predicatori del nostro tempo - Paolo VI, Martini, Benedetto XVI - si
richiamino al paradigma dell'apostolo Paolo nel ripensare il loro essere
servitori del vangelo. Colpisce in questa linea un'acuta osservazione
del presule. Parlando di alcuni grandi Padri della Chiesa, Martini notava che
spesso possono apparire datati. Ma non si tratterebbe di un limite reale:
«Sembrano datati a noi perché nel loro tempo risultavano attuali, capaci di
parlare a chi allora li ascoltava». Anche il card. Martini è stato un
predicatore del suo - del nostro - tempo, senza la pretesa di dir cose valide
sempre e in ogni luogo, ma appunto per questo accolte dai contemporanei come
annuncio, interrogazione, consolazione, insegnamento, richiamo... adeguato
all'esistenza odierna.
Il testimone Negli ultimi anni Martini si dedicò a incontri
e ritiri al clero, alle risposte ai lettori dei giornali, a qualche breve
intervento videoregistrato. La parola si affievoliva, e spiccavano sempre più il
bel volto, gli occhi luminosi, il sorriso reso fisso dalla malattia. Fu la terza
grande stagione della predicazione martiniana, dopo l'epoca degli esercizi
spirituali e quella delle omelie in Duomo. Una stagione quasi senza parole,
quasi senza uditorio fisico; eppure non senza sintonia con molti, credenti e non
credenti. E' capitato a Martini quello che era accaduto
a Giovanni Paolo II, di cui alcuni scoprirono la grandezza quando il Papa sano,
sportivo, in grado di girare il mondo, di comunicare in molte lingue, di cantare
e parlare con voce forte, lasciò il posto a una anziana figura paterna,
incurvata, irrigidita, bisognosa di sostegno. A tanti papa Wojtyla parlò dal seggio della
sofferenza più che dalla cattedra pontificale. Il cardinale Carlo Maria Martini sapeva bene
che l'annunciatore comunica con la vita prima che con le parole. Lo aveva espresso in molte occasioni con
lucidità, per esempio in un corso di esercizi pubblicato nel 1986, Il
predicatore allo specchio: «Meditare sul predicatore - spiegava Martini - vuol
dire meditare sull’autenticità della vita del prete, e poi anche della vita del
cristiano, anzi della vita dell’uomo, di colui che ha raggiunto in se stesso
quel grado di integrazione umana per cui, avendo un tesoro dentro, può trarne
cose antiche e cose nuove». LAMPADA AI MIEI PASSI LA TUA PAROLA... di Giuseppe Grampa
Il morbo di Parkinson che aveva colpito il
cardinale Martini già nell’ultimo periodo di episcopato a Milano, a poco a poco,
ha devastato il suo
Ho avuto la grazia in questi anni, prima a Gerusalemme e poi a Gallarate con don Barbareschi, di incontrare tante volte il Cardinale e, a poco a poco, abbiamo constatato le inesorabili conseguenze del male che lo ha progressivamente privato della parola, ridotta a un soffio appena percettibile e poi dei movimenti. Ma ancora lo scorso giugno abbiamo potuto
insieme celebrare l’Eucaristia. Un’altra volta ricordo ci ha parlato proprio di
quella progressiva passività che è la malattia e del suo esito estremo, la
morte. Ma aggiungeva solo la morte offre ad ognuno di noi la suprema occasione
per affidarci pienamente a Dio come una grande cascata di acqua si getta nel
fiume. Ma aggiungeva, confessando le sue paure, spero
che in quell’ultima ora ci sia una mano che tiene stretta la mia mano come a
vincere i fantasmi dell’ultima ora per affidarmi senza scampo e senza riserve al
Signore. Ha avuto in tutti questi anni la mano amica
dei suoi famigliari, dei confratelli gesuiti, di tanti amici e soprattutto di
don Damiano, una presenza filiale piena di dedizione. Dopo l’emozione di queste ore la memoria
ripercorrerà gli ottantacinque lunghi anni della sua esistenza e soprattutto gli
anni milanesi, anni dominati dalla passione per la Parola di Dio. Questo è stato
davvero il suo grande esclusivo amore fin dalla fanciullezza.
Padre Georg Sporschill, il confratello
gesuita del card. Martini che lo intervistò in Conversazioni notturne a
Gerusalemme, e Federica Radice (l’interprete fra i due gesuiti) lo hanno
incontrato l'8 agosto: “Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini
ha letto e approvato il testo”. Il card. Martini voleva che l'ultima intervista
“fosse inserita nel testamento”; ”… non un attacco alla Chiesa, ma un atto
d’amore”. Come vede lei la situazione della Chiesa? «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere
e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le
nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita,
i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello
che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane
ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo
discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però
potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono
stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli
eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli
dell'istituzione». Chi può aiutare la Chiesa oggi? «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine
della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vede nella Chiesa di oggi così
tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si
può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma
dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole
persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il
centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il
nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e
ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali.
Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che
sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in
modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la
conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un
cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli
scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione.
Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono
un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo
importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della
Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di
riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il
Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi
percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il
rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una
giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che
ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi
all'interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono
dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi
sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti
non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti
del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che
necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie
risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione
speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia
quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo
verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della
generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo
compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se
questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma
anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne
sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della
Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere
degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati
possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare
in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari
complesse?» Lei cosa fa personalmente? «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni.
Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la
fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono
vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me
mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia
che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore
vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi
fare tu per la Chiesa?».
L’8 settembre 2002, in occasione della festività della Natività della Beata Vergine Maria, il cardinale Martini pronunciava in Duomo la sua ultima omelia come arcivescovo di Milano. L’aveva intitolata “Vi porto nel cuore”: oggi assume quasi il tono di un testamento spirituale. Ecco come terminava. “Ai miei fedeli raccomando in particolare l'amore della Scrittura e la pratica della lectio divina, mentre ai cristiani di tutte le confessioni affido la speranza dell’unità della Chiesa e di una ritrovata comunione nella molteplicità dei doni di Dio, che permetta un dialogo fruttuoso tra le religioni e una rinnovata amicizia col popolo delle promesse. A tutti dico: amatevi gli uni gli altri, così vivrete nella giustizia, nel perdono e nella pace. Il nostro maggiore contributo alla pace in un mondo gravido di conflitti e di minacce di nuovi assurdi conflitti nascerà da un cuore che anzitutto vive in sé stesso il perdono e la pace. Servitevi con amore a vicenda facendovi prossimi a tutti, perché chi rende il più piccolo servizio al minimo di tutti i fratelli lo rende non solo al mistero della dignità umana ma a ciò che la fonda, cioè al mistero di Gesù”. |