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Quaresima di fraternità 2012 - proposta
su Catechesi dell'Arcivescovo 1) La condanna 2) Sulla via della croce 3) L'umiliazione dell'amore Via Crucis con l’Arcivescovo Per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is
53,5) 1) LA CONDANNA (Stazioni I-III) I. Gesù è condannato a morte. Il potere
di infliggere la pena capitale spettava agli occupanti romani, perciò Gesù, dopo
che il sinedrio per bocca di Caifa l’aveva già processato e condannato a morte
per bestemmia, fu consegnato al governatore romano Ponzio Pilato perché
emettesse la sentenza definitiva. Dopo alcuni tentativi di salvare il
condannato, Pilato, pragmatico fino al cinismo, eppure incapace di sostenere lo
sguardo di Gesù - come ben mostra il dipinto del Previati - cedette al ricatto e
alle urla - «Crocifiggilo! Crocifiggilo!» - di una folla aizzata ed inferocita:
«Essi urlavano a gran voce… Essi però insistevano a gran voce… e le loro grida
crescevano» (Lc 23,21 e 23). Il potere religioso ed il potere politico si
alleano nel condannare l’Innocente («Ed egli, per la terza volta, disse loro:
“Ma che male ha fatto?”» Lc 23,22) e liberare l’assassino. Così la violenza
cieca, simboleggiata da Previati con la lancia piantata al centro della scena,
ha la meglio. Viene liberato Barabba e messo a morte Gesù. Di fronte a questa testimonianza resa dal
Condannato «non si può restare in disparte o al margine… non ci è lecito lavarci
le mani», ci ha ricordato il Beato Giovanni Paolo II. È questo un primo e
decisivo cambiamento che la Quaresima urge a noi cristiani: del nostro male
siamo responsabili, non possiamo farci da parte. Davanti all’Innocente
ingiustamente condannato ognuno è chiamato a riconoscere la propria
responsabilità: i nostri atti, i nostri pensieri e sentimenti ci seguono, i
nostri peccati ci accusano. “Perdonami mio Signore di tutto il male mio”. È il
grido della Quaresima. La preghiera è la prima grande parola della Quaresima.
L’espressione oggettiva della nostra addolorata supplica si trova nel Sacramento
della Penitenza. Rinnovo l’invito ai Sacerdoti perché siano disponibili ad
ascoltare le Confessioni in questo tempo quaresimale (Duomo, Parrocchia,
Santuari, Chiese principali delle Comunità pastorali e del Decanato). II. Gesù è caricato della croce (cfr Gv 19,17). Caifa consegna Gesù a Pilato, Pilato lo consegna alla folla… e Lui si consegna agli uomini per amore. L’Innocente ingiustamente condannato non subisce il verdetto come una sciagura: Egli, in modo per noi sconcertante ma rivelatore, si erge come il protagonista della scena. L’Innocente consegna se stesso: è certamente caricato della croce, eppure è Lui a prenderla su di Sé. Gesù condannato a morte ci urge a farci
carico, a nostra volta, del mondo, a prendere su noi stessi la sorte degli
innocenti. Infatti, «da quando Gesù si è lasciato percuotere, proprio i feriti e
i percossi sono immagine del Dio che ha voluto soffrire per noi. Così, nel mezzo
della sua passione, Gesù è immagine di speranza: Dio sta dalla parte dei
sofferenti» (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 2, 224). Ogni giorno, purtroppo, siamo colpiti da un
diluvio di immagini e di notizie che ci dicono che l’innocenza è disprezzata,
violata, sacrificata. Eppure solo l’innocenza è fonte di speranza e di
edificazione umana e sociale. Gli innumerevoli testimoni, consapevoli o
inconsapevoli, dell’Innocente Crocifisso sono lì a dimostrarcelo. Accogliendo liberamente la condanna che Gli
viene inflitta, Gesù diviene un interlocutore affidabile della nostra persona
segnata dal male e dalla ribellione. Scrive acutamente il poeta Luzi: «Sfogare
sopra un misero e indifeso corpo umano che hanno nelle loro mani, l’astio d’un
antico e inconfessato paragone con la divinità, questo li esalta». È la
tentazione, sempre insorgente nell’uomo, di sfidare Dio, di chiamarLo in
giudizio davanti al tribunale del mondo, di sottrarsi a Dio e ad ogni
dipendenza. Una tentazione che nelle società secolarizzate del nostro tempo
rischia di farsi sistema. Ma spesso l’inaccettabilità rabbiosa di Dio, del
Padre, è l’altra faccia del bisogno struggente di Lui. Come duemila anni fa anche questa sera
l’Innocente Condannato sta, inerme, davanti a noi uomini sofisticati del Terzo
Millennio. Il Suo sguardo implorante ci ripete: «Milano, non perdere di vista
Dio». Chi di noi potrà accusarlo di essere nemico dell’uomo? È lo stesso Luzi a
dirci la potenza del Suo abbraccio quando mette sulle labbra del Crocifisso
l’invocazione al Padre: «Eppure abbi pietà, perdonali». Questo radicale eppure
congiunge inscindibilmente tutta la profondità del nostro male con l’abisso
insondabile della misericordia di Dio. Gesù, infatti, «portando la croce, si
avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero»
(Gv 19,17-18).
Amici,
nell’attuale frangente
di travaglio sociale ed
economico, quanto siamo
disposti a fare di
questo eppure di
misericordia il criterio
dei nostri rapporti? Non
permetteremo dunque alla
carità – la seconda
grande parola della
Quaresima – di
trasfigurare le strette
maglie di una giustizia
“troppo umana” in cui la
coscienza del male non
lascia scampo alla
redenzione? I rapporti
sociali sono chiamati ad
un realismo che esprima
la misericordia, propria
della giustizia divina,
come parola definitiva
sull’umana esperienza e
vinca la tentazione
utopica, sempre in
agguato per l’uomo, di
farsi giustizia da sé. La lunga e gloriosa tradizione cristiana di
Milano l’ha resa città solidale e perciò valorizzatrice di ogni libertà
rettamente intesa, propria della persona e dei corpi intermedi. Le Parrocchie,
le Comunità religiose e tutte le aggregazioni ecclesiali siano luoghi di vita
buona del Vangelo per tutti. La vita buona del Vangelo è una proposta
interessante anche per chi crede di non credere. III. Gesù cade per la prima volta.
L’eppure perdonali non è un per modo di dire. Gesù, infatti, «si è caricato
delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori», Egli è l’Uomo dei
dolori «castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,4). «Ecce homo»! Lo abbiamo ascoltato nel bellissimo brano di
Tomás Luis De Victoria: «Vere languores nostros ipse tulit… cuius livore sanati
sumus», Egli ha preso su di Sé veramente le nostre debolezze… dal suo corpo
tumefatto e sfigurato noi siamo stati sanati. Il Catechismo della Chiesa
Cattolica ci ricorda che «mediante la sua obbedienza di amore al Padre “fino
alla morte di croce” Gesù compie la missione espiatrice del Servo sofferente che
giustifica molti addossandosi la loro iniquità» (CCC n. 623).
In Gesù che cade si mostra tutta l’oppressione del male e del peccato. Ma Egli,
cadendo sotto il peso dei nostri peccati ci rialza per la Sua condivisione
amorosa. Il Suo amore è testardo: «Non resta che procedere tutto d’un fiato e
imparare a conoscere pietra dopo pietra, e se il piede manca, è il cuore che si
ostina». Così Claudel esprime la decisa volontà di salvezza che sosteneva Gesù
nel cammino del Calvario.
Il
Signore non solo ha
voluto soffrire con noi,
ma per noi. Egli cade
sotto il peso della
croce, ma, ecco il
divino paradosso, lo fa
per propria decisione.
Volontariamente (sponte)
Egli abbracciò la croce.
Chi, tra noi, ha reso
abituale questa volontà
di sacrificio? Il digiuno – la terza grande parola della
Quaresima – rende ognuno di noi “dominus sui”: il digiuno aiuta la signorìa sul
proprio io. La maturità è coscienza del proprio limite e peccato. C’è uno smog
del cuore, più nefasto di quello dell’atmosfera che pregiudica la nostra salute,
perché pregiudica la nostra salvezza inquinando le menti ed alterando i rapporti
primari dell’uomo con se stesso, con gli altri e con Dio. Signore Gesù, Innocente condannato, muovici al dolore dei nostri peccati, annulla la nostra condanna./ Caricato della Croce hai abbracciato ogni umana miseria ed ingiustizia, sii Tu il nostro conforto./ Innocente, caduto sotto il peso della Croce, Ti sei lasciato sprofondare nell’abisso infernale del male e del peccato: non allentare il Tuo abbraccio./ De profundis clamavi ad Te, Domine: Tu sei la nostra speranza o divino Salvatore./ Amen.
1) La condanna 2) Sulla via della croce 3) L'umiliazione dell'amore Via Crucis con l’Arcivescovo Per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is 53,5) (Stazioni IV-VII) Uno cielo opaco ed opprimente sopra uno spazio desolato, remoto dalla città degli uomini. Uno spazio spento, attraversato dalla croce che, sola, ne segna il senso (significato e direzione). Con questa potente immagine Previati evoca la risposta al mysterium iniquitatis che ogni uomo, senza distinzioni, sente pesare sulla propria vita. Dio, nel Figlio incarnato, si carica sulle spalle il no degli uomini: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1Pt 2,24). Insiste il Catechismo: «Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male. Egli illumina il mistero del male nel suo Figlio, Gesù Cristo, che è morto e risorto per vincere quel grande male morale che è il peccato degli uomini e che è la radice degli altri mali» (CCC n. 57). Amici, questa sera siamo tornati fedelmente nel nostro bel Duomo per seguire in preghiera la via della liberazione dal male (salvezza) aperta dal Crocifisso glorioso. Sulla via della croce - così infatti abbiamo intitolato questa seconda tappa del nostro cammino catechetico di Quaresima - apprestiamoci, quindi, a calcare le orme, con il cuore pieno di affetto, dell’Innocente condannato. Contempliamo Cristo che liberamente si lascia imporre la
Croce sulle spalle e con decisione inizia a percorrere la Via dolorosa: il
Santo, l’Innocente si carica del nostro dolore fino a morirne. In questa tappa
della nostra catechesi quaresimale emergono con forza gli incontri di Gesù lungo
la Via della croce: con la Madre, con il Cireneo, con la Veronica. IV. Gesù incontra la madre Nella sofferenza che talora appesantisce le nostre giornate e
rende lunghe e inquiete le notti, non siamo soli: Gesù è con noi. Ma, in qualche
modo, è vero anche l’atteggiamento reciproco: secoli di tradizione cristiana ci
hanno insegnato ad accompagnare Gesù nella Sua sofferenza. E questo perché la
com-passione, il patire-con (essere sensibile all’altro, soprattutto alle sue
sofferenze), lega, al di là di ogni diversità, tutti gli uomini. La famiglia
umana infatti ha in Dio, lo si riconosca o meno, un unico Padre. E Gesù è in
tutto, tranne che nel peccato, uomo. «Anche a te - dice il vecchio Simeone a Maria, prefigurando
il mistero dell’Addolorata - una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). La Madre è
venuta incontro al Figlio e si strugge per l’impotenza ad arrestarne il
supplizio. «O croce, e che farai? El figlio mio torrai? E che ce
apponerai che non ha en sé peccato?»: mettendo sulle labbra della Madonna un
dialogo (che è in realtà uno straziato monologo) con la croce, il genio di
Jacopone si fa interprete di tutte le vittime della violenza del male. “Figlio
bianco e vermiglio” così Maria inizia il suo dolcissimo compianto su Cristo.
Bianco, l’innocenza; rosso il sacrificio. Sono i colori dello stemma della
nostra città. Alla poesia di Jacopone fa eco, con insuperata intensità, il
Caligaverunt di De Victoria «I miei occhi sono annebbiati dalle mie lacrime:
considerate, popoli tutti, se c’è un dolore come il mio». Nel quadro di Previati la Madre precede la piccola compagnia
che segue il Figlio: anche nel momento estremo della Croce, Maria precede anche
noi, stasera, ci conduce al Signore. Maria è veramente madre. Come fa, o
dovrebbe fare, ogni madre chiamata a condurre il figlio al padre. Compito della
madre infatti è condurre il figlio all’altro, soprattutto a suo padre. Ogni sera, prima di dormire, impegniamoci ad affidare la
nostra persona - e in particolare la nostra vocazione – alla nostra Madre
celeste recitando un’Ave Maria, magari in ginocchio.
A uno solo - e per giunta sconosciuto e straniero - è
concesso lo straordinario privilegio di una collaborazione, benché minima, con
l’opera di salvezza di Gesù. E non importa se il suo gesto è del tutto casuale,
forse anche non voluto o, per lo meno, fatto di malavoglia: «Costrinsero a
portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene» (Mt 15,21). Duemila anni fa in luogo sperduto della terra, un tale che
ritornava dal lavoro, probabilmente stanco e desideroso di arrivare quanto prima
a casa, cedette ad una “misteriosa costrizione”. E da quel momento il suo nome
divenne familiare a tutti gli uomini del mondo e della storia. Ancora oggi noi
ne sentiamo parlare con precisione di dati, come si fa con un amico: «Simone di
Cirene, il padre di Alessandro e di Rufo». «Felice colui che lo vide nel tempo, e che pure non lo vide
che una volta» (Péguy, I Misteri). Nella gratuità assoluta della grazia
dell’incontro «con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la
direzione decisiva» (Benedetto XVI, Deus caritas est 1) si apre nell’esistenza
umana lo spazio della felicità, anche quando quell’incontro è segnato dal dolore
e dalla sofferenza. L’episodio del Cireneo ci dice che dalla com-passione nasce
la solidarietà. Lo vediamo bene negli aspetti decisivi della nostra vita
quotidiana: gli affetti, il lavoro, il riposo. La “com-passione” rappresenta un
fattore di coesione sociale, può essere principio di una società giusta e umana.
Ci spinge fino a farci carico del male e del dolore di coloro che non riescono a
portarlo sulle proprie spalle. A questi aspetti decisivi della nostra vita vuole richiamarci
il VII Incontro Mondiale delle Famiglie impreziosito dal dono straordinario
della presenza per ben tre giorni di Benedetto XVI tra noi. VI. Gesù incontra Veronica Cristo è lo splendore della gloria del Padre, ci ha
testimoniato Santa Chiara, invitandoci a contemplare «l’ineffabile carità con la
quale ha voluto soffrire». Gli occhi della Veronica la contemplarono e il suo
tenero gesto di compassione la seppe custodire. Cercando incessantemente il Suo
volto ella fu capace di riconoscerLo anche sotto la maschera ripugnante della
sofferenza, senza «apparenza né bellezza», senza «splendore per poterci piacere»
(Is 53,2). Qualche anno fa in Francia, a Nizza, venne proposto a tutti
gli studenti liceali e universitari un Concorso in cui si chiedeva di
rappresentare graficamente la loro immagine di Dio. Vinse un liceale con un
disegno così concepito: nella fascia alta del foglio un cielo chiaro e nuvole
illuminate da mille colori, sotto un volto bellissimo, secondo l’ideale greco
dell’uomo apollineo e infine, nella parte inferiore del foglio, un mondo in
rovina: macerie, la devastazione dello tsunami, teatri di guerre e di attentati,
morti… con questo titolo: Dieu, le tout puissant, incapable - Dio,
l’Onnipotente, un incapace. Invece quest’Uomo dal cui abbraccio siamo stati attirati fin
qui anche questa sera è l’esatto contrario: è l’ Impotente capace, tanto è vero
che rigenera la vita. La Bellezza – a ben vedere - è in questo volto sfigurato
che ci dice la disponibilità di Dio a dare la Sua vita per noi; o, per usare la
parola giusta, ci dice il Suo sacrificio. Il sacrificio oggettivo non annulla il
desiderio di felicità che abita nel nostro cuore. Anzi lo compie! Per questo il
sacrificio nell’esperienza del Crocifisso e di quelli che si pongono alla Sua
sequela, i martiri, si trasfigura in Bellezza. «Il tuo volto, Signore io cerco» (Salmo 26): il Volto
dell’Impotente capace è il Volto della misericordia. Cercare il Volto della
misericordia è l’essenza del cuore dell’uomo, la più alta aspirazione della
ragione.
Come la Veronica sono migliaia i cristiani che, dalla mattina di Pasqua fino ad
oggi, si spendono personalmente in opere di carità in tutto il mondo. Prendiamo
questa sera la decisione di donare in questo tempo di Quaresima, almeno una
volta, un po’ del nostro tempo libero, agli ammalati, agli anziani, ai
carcerati, a quanti sono soli. E ricordiamoci del gesto di solidarietà a favore
dell’Ospedale di Chirundu, in Zambia. VII. Gesù cade la seconda volta Nel peccato l’uomo, ribellandosi alla dipendenza dal
Creatore, si sottomette ad un altro che lo tiene in scacco; viene soggiogato dal
Maligno, insultato e maltrattato da lui… Per liberarci dal Maligno il Signore
Gesù sceglie, obbedendo al Padre, di portare su di sé con mite ma energica
docilità, il nostro peccato: «Insultato non rispondeva con insulti, maltrattato
non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia» (1Pt
2,23). Gesù si carica della croce del nostro peccato e ne porta le conseguenze
fino a cadere sotto il loro peso). Noi invece, tendenzialmente rimuoviamo il
peccato, lo “scarichiamo” e gettiamo su “altro” e su “altri” le sue conseguenze.
Così di fronte alle varie forme di male, di fronte a una disgrazia fisica -
penso allo tsunami, o ai devastanti terremoti di Haiti e del Giappone, o alla
assurda tragedia del Concordia… - ma ancor di più di fronte al male morale,
l’uomo è spinto a cercare un capro espiatorio, qualcuno su cui gettare tutte le
colpe, allontanandole da sé. Del resto anche il Crocifisso fu trattato come un
capro espiatorio. È un’ultima “de-responsabilizzazione” contraria alla verità
dell’umano. Invece i nostri atti ci seguono. Senza espiazione l’io non trova
pace. Il perdono, quello di Dio, quello autentico, esige da parte nostra il
riconoscimento delle nostre colpe e la disponibilità ad espiarle. Le tre grandi parole della Quaresima: preghiera, carità e
digiuno ci indicano la strada. Chiediamo la grazia del dolore dei nostri peccati
preparandoci ad un’umile, completa e sobria confessione nel sacramento della
penitenza. Il dolore dei peccati non è semplice senso di colpa, ma è un giudizio
della ragione contrita e commossa. Sottomettendoci al Suo giogo dolce e leggero
saremo risollevati dalla Misericordia che, come dice Ungaretti, «perennemente
riedifica umanamente l’uomo». Signore Gesù, la compassione della Tua santissima Madre, la tenerezza della Veronica, il sostegno del Cireneo, non sono riusciti a evitarTi la caduta inflitta dalle nostre colpe. Nel Tuo Volto santo noi, peccatori, riconosciamo la misericordia del Padre. Concedi ai nostri cuori assetati di redenzione il dono del Tuo Spirito. Crea in noi un cuore nuovo, riempilo di compassione per i nostri fratelli uomini. Figlio a noi consegnato dal Padre, Uomo dei dolori, esperto nel patire, abbi di noi compassione. Amen.
1) La condanna 2) Sulla via della croce 3) L'umiliazione dell'amore Via Crucis con l’Arcivescovo Per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is 53,5) (Stazioni VIII-XI) Dalle ferite del Crocifisso sgorga il sangue che copre e
rigenera il cuore della Maddalena. Certo la donna aveva amato in un modo
stravolto e peccaminoso, ma la grazia, Gesù stesso, la Sua persona, i Suoi gesti
e le Sue parole avevano spalancato la possibilità dell’amore vero, oggettivo e
perciò effettivo, a questo suo amore sgraziato e impuro. E così la carezza di
Maria Maddalena ai piedi di Gesù, richiama il bacio della peccatrice:
l’umiliazione dell’amore - è il titolo della tappa odierna della Via Crucis -
del Maestro contagia la discepola. Nel silenzio della crocifissione risentiamo l’eco delle
parole di Gesù: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc
7,47): il perdono sovrabbondante viene incontro al pentimento mosso dall’amore.
E la misericordia ricrea: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Questa nuova creazione si intravvede già sull’orizzonte attraversato dalla luce
sfolgorante della resurrezione, di cui Maddalena sarà la prima testimone: nella
Sua morte la morte è vinta (il teschio che la raffigura rotola via).
su
Meditiamo, ora, l’umiliazione dell’amore inflitta a Gesù,
l’Uomo dei dolori. VIII. Gesù incontra le donne di Gerusalemme «Ma Gesù voltandosi verso di loro disse…». Non rimuoviamo la
forza di questo “ma”! Gesù, che ha pianto su Gerusalemme, stremato lungo la via
dolorosa, corregge ora il pianto delle donne - e anche il nostro – aprendo la
compassione alla conversione. Lo porta in profondità: penitus, penitenza. Non possiamo, infatti, volgere lo sguardo a Gesù se non nella
coscienza di essere peccatori. Mentre le nostre giornate, troppo spesso dominate
dalla distrazione e dalla dimenticanza del Crocifisso glorioso, sono segnate da
un cuore arido, imperturbabile. Donaci Signore «le lacrime che sciolgono la
colpa, il pianto che merita il perdono» (Sant’Ambrogio, Esposizione sul Vangelo
di Luca, X, 90). Insegnaci a chiamare per nome il nostro peccato per provarne
autentico dolore. Come avranno reagito le donne di Gerusalemme al severo
richiamo di Gesù? Eliot – lo abbiamo sentito – legge il loro sgomento: «Dio ci
ha sempre lasciato una speranza, uno scopo./ Ma adesso siamo macchiate da un
terrore nuovo,/… Dio ci sta abbandonando…». «Dio mio perché mi hai abbandonato?»
è il grido della preghiera di Gesù sulla croce.
su
Perché non compiere ogni giorni in questo tempo benedetto di
Quaresima, un piccolo esercizio di pietà? Prendiamo fisicamente in mano il
crocifisso e contempliamolo intensamente. Come avvenne con Pietro, il suo
sguardo ci muoverà a riconoscere il nostro peccato, a provarne dolore,
accostandoci al benefico sacramento della riconciliazione. IX. Gesù cade la terza volta «Si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53,7).
Quest’ultima espressione è ripetuta due volte in un solo versetto. Il silenzio
del Servo è estremamente insolito. «Era come agnello condotto al macello» (Is
53,7): in aramaico un unico termine (talya) designa sia l’agnello che il servo,
la figura della vittima innocente. «Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo… Sì,
fu eliminato dalla terra dei viventi» (Is 53,8). È la solitudine più radicale,
il Crocifisso è il più emarginato degli uomini. Nel Responsorio di De Victoria
si usa un verbo ancora più forte: «Venite,… eradamus eum de terra viventium»,
strappiamolo via fin dalle radici dalla terra dei viventi.
È l’assalto rabbioso del Maligno che è il Divisore (dia-ballos), colui che
svelle l’uomo dalle sue appartenenze costitutive. La terza caduta di Gesù,
perché «il peso per le membra è troppo grave» (Luzi), dice quanto sia greve la
Sua solitudine. L’uomo abbandonato a se stesso non può che rimanere schiacciato
dal peso del male. E l’amore dell’Uomo-Dio accetta di essere schiacciato a
terra, umiliato. Davanti al male e alla sofferenza noi ci ribelliamo, Lui
accetta: è il Paziente. «Tutto ha sofferto con la sua pazienza, per dare un
insegnamento alla nostra pazienza» (Sant’Agostino, Sermone 175, 3, 3). Così fanno anche i martiri. Ricordiamo il martirio del sangue
dei nostri fratelli cristiani perseguitati in troppe parti del mondo. E quello
di tutti coloro che sono perseguitati o uccisi per la verità e la giustizia. «Ci
sono anime innocenti, /creature pietose che si angosciano, /non si danno pace. E
questi, ti prego, prediligili. …/Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,
/erano meravigliati - alcuni un giorno capiranno» (Luzi). Anche noi ci
scandalizziamo di fronte alla “strana necessità del sacrificio”. Eppure è nel
sacrificio che tutto diventa vero.
su
Il Signore viene spogliato. La nudità di Gesù, il nuovo
Adamo, ci riporta in qualche modo alla nudità del primo Adamo. Eppure c’è una
radicale differenza. Non siamo più di fronte all’innocenza originaria in cui il
corpo risplendeva in tutta la sua natura relazionale, come segno di comunione
con Dio e con l’altro. L’uomo era nudo perché nulla nascondeva la sua verità, il
suo rapporto col Creatore. Ora, invece, dopo la rottura della relazione
costitutiva con Dio, la nudità, ferita mortalmente da quella perdita, soffre
vergogna. Nella spogliazione Gesù accetta di seguirci «sino al fondo
abissale, infernale, della condizione mortale. Ed è lì - trasfigurazione a
rovescio, trasfigurazione non sul monte ma nell'abisso - è proprio lì, proprio
per quello che lì avviene che egli è glorificato. La sua discesa nelle tenebre,
alla ricerca dell'Adamo smarrito che è in ciascuno di noi, fa esplodere in tutto
il suo splendore l'amore di Dio per l'uomo» (Clément). Con gli occhi fissi su Colui che sta per essere crocifisso
ripetiamo col versetto dello Stabat Mater: «Fac ut ardeat cor meum in amando
Christum Deum». E la supplica al Signore perché il nostro cuore arda nel Suo
amore diventa domanda di verità. Come scrive Giovanni Paolo II nel Trittico
romano nel Giudizio saremo nudi davanti a Dio. Completamente svelati.
L’umiliazione del Crocifisso testimonia che senza la verità legittimata
dall’amore alla lunga non viene rispettata la dignità di ogni uomo e di ogni
donna. In tempi come i nostri grande è la tentazione di dire “addio alla verità”
per accomodarsi in una sorta di “rassegnazione gaia”. Il Cristo denudato diventa
allora per noi, soprattutto per i fedeli laici, impegno ad edificare, anche in
questa nostra società plurale, la civiltà della verità e dell’amore.
su
«Cuius livore sanati sumus» (Responsorio, Ecce vidimus eum):
il corpo del Signore che pochi giorni prima si era manifestato sfolgorante di
bellezza sul monte Tabor ora, si lascia illividire sul palo ignominioso della
croce. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro
favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). La croce di Cristo fa esplodere la consapevolezza del male
morale. Una delle censure più pesanti della mentalità contemporanea è quella che
riguarda il riconoscimento del proprio peccato. Tutt’al più quando il disagio
diventa incontenibile, se ne tollera un travestimento (il senso di colpa a cui
abbiamo già fatto riferimento la volta scorsa). Chi ha coscienza del proprio
peccato, invece, prova dolore dinanzi all’amore del Crocifisso e da Lui mendica
liberazione dal male. Bernanos, nel brano che abbiamo ascoltato, descrive la
sofferenza e la morte dell’Innocente Crocifisso come il «colmo dei
travestimenti» del vero: «… hanno travestito da schiavo il Padrone del Creato».
Ma «la Terra e l’Inferno insieme non hanno potuto andare più in là di quella
mostruosa e sacrilega birbanteria». Perché nella morte singolare di Cristo è
vinta la nostra comune morte. L’ultima parola sulla vita dell’uomo non è più la
morte, ma la gloria del Crocifisso risorto. Preghiera, carità, digiuno, documentati in gesti puntuali,
siano l’ordito della settimana quaresimale che ci attende. Signore Gesù, nel Tuo cammino verso il Calvario, non hai voluto risparmiarTi nessuna umiliazione. Per amore Ti sei lasciato schiacciare dal peso della
solitudine, hai patito la vergogna della nudità nella spogliazione e l’infamia dell’essere per noi inchiodato sul palo della
croce. Più noi ci allontaniamo dal Padre, più Tu prendi su di Te le conseguenze del nostro smarrimento. Donaci, o Redentore, «le lacrime che sciolgono la colpa, il pianto che merita il perdono» (Sant’Ambrogio, Esposizione sul Vangelo di Luca X, 90).
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