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Parrocchia San Pietro - Abbiategrasso

 

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Riflessioni sulla Carità

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Conflitti dimenticati  di Rita Salerno Su "La Pietra" di questo mese
Un giocattolo per amico, ma è elettronico di Franca Zambonini Centro di Ascolto Caritas: relazione attività
A proposito di razzismo  del Card. Carlo Maria Martini  
A proposito di emergenze Civitas  
A proposito di lavavetri  di Mario Marazziti  
Lettera di un giovane detenuto     
     
     
     

                                                                

 

 

                                  

 

                             

                           

                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                

 

 

 Su "La Pietra" di questo mese 

Caritas e comunità educante

 

Gli spunti di riflessione che l'arcivescovo Scola ha pubblicato prima della pausa estiva mi sembrano meritevoli di una qualche traduzione anche a livello del vissuto delle nostre Caritas.

Dietro alla "Nota pastorale" intitolata La comunità educante ci sono alcune intuizioni che appartengono al mandato che da sempre ci è stato affidato dai Vescovi italiani, in particolare a proposito di quel compito educativo che siamo chiamati a svolgere nei confronti delle nostre comunità di appartenenza, compito che - non nascondiamocelo - rischiamo talvolta di mettere tra parentesi, tutti presi a cercare di rispondere alle richieste che quotidianamente ci vengono rivolte. Certo, la "Nota pastorale" è anzitutto rivolta al mondo dei ragazzi, specie a quelli dell'iniziazione cristiana, al modo in cui gli adulti che si occupano della loro educazione sono chiamati a operare remando nella stessa direzione. Ma questo non esclude la necessità di rileggere dal punto di vista di una Caritas diocesana l'impegno a superare una concezione della pastorale a compartimenti stagni in cui ogni settore finisce per sentirsi responsabile del suo "pezzo" e quasi autorizzato a disinteressarsi degli altri. Un "disinteresse" che porta così a ragionare in termini di delega. Ora, se da un lato è comprensibile che non tutti dobbiamo occuparci di tutto e che qualcuno dovrà acquisire competenze specifiche, dell'altro si intuisce che, quando c'è di mezzo la carità, nessuno nella comunità cristiana può tirarsi indietro, a nessuno è lecito ragionare in termini di scarica barile.

Così, da un lato la "Nota pastorale" dell'arcivescovo ci fa fare un bell'esame di coscienza rispetto alla consapevolezza con cui viviamo il nostro impegno, rispetto cioè all'obiettivo ultimo che è la crescita del senso di solidarietà diffuso nelle nostre comunità cristiane. Dall'altro, ci incoraggia a precisare che la carità non potrà mai essere di appannaggio di nessuna realtà, nemmeno della Caritas, e che nella educazione alla carità ci si dovrà sentire un po' tutti coinvolti, senza delegarla a chicchessia. Se la parrocchia dovrà pensarsi sempre più come "comunità educante" rispetto alla fede dei ragazzi, per certi versi lo dovrà essere anche in riferimento alla carità di ogni suo membro.

Ecco allora che cosa può significare il concetto di "comunità educante" sul piano della carità:

che si superi l'idea della carità come di qualcosa da fare, come di una buona azione o peggio di un dovere da assolvere con qualche offerta che tutti i gruppi, da quelli caratterizzati da un impegno educativo a quelli più organizzativi, si pongano l'obiettivo di mostrare - nel modo più convincente possibile - che lo scopo ultimo del loro esserci è quello di costruire uno stile attraente e simpatico, specie nei confronti di chi è più lontano dalla Chiesa che ci si intenda sul modo corretto di realizzare la carità da parte della Chiesa a partire dall'insegnamento del Concilio Vaticano II e da quanto i Vescovi italiani hanno da sempre chiesto alle Caritas delle nostre diocesi.

 Detto fuori dai denti, ce ne faremo ben poco di Caritas anche ben organizzate, ma incapaci di far sentire un po' tutti corresponsabili nella costruzione della Chiesa e in grado di riconoscere nel volto dei fratelli più sofferenti quello di Gesù. Serviranno ben poco Caritas super-attive, ma sostanzialmente isolate dal resto dei gruppi parrocchiali. Ben lontane dal loro mandato saranno quelle Caritas che, pur in grado di entrare in relazione con Comuni e pubbliche amministrazioni, non riusciranno a farsi riconoscere come espressione della più ampia comunità dei cristiani.

                                                              Roberto Davanzo

 

 

 

                                                         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MONDO NELL'OCCHIO DEL CICLONE

La terza ricerca sui conflitti dimenticati, curata da Caritas Italiana insieme a “Famiglia Cristiana” e “Il Regno”, fa il punto anche sul grado di percezione delle guerre da parte dell’opinione pubblica internazionale

Incroci News 16/01/2009                                                         di Rita SALERNO 

Per gli italiani è fortissimo il legame tra dinamiche ambientali e attività belliche. È quanto emerge dai risultati della terza indagine intitolata Nell’occhio del ciclone, pubblicata dal Mulino e curata, come le precedenti edizioni, da Caritas Italiana in collaborazione con le riviste Famiglia Cristiana e Il Regno.

Rispetto ai due studi precedenti (gennaio 2003 e novembre 2005), che si concentravano sui conflitti armati dimenticati e sulle loro connessioni con il terrorismo internazionale, il nuovo lavoro di ricerca prende in esame le connessioni tra conflittualità armata organizzata e le dinamiche ambientali. Come accade negli scontri regionali, nel caso del Sudan e delle Filippine, e nelle guerre a carattere nazionale.

Di più. Lo studio analizza gli esiti di una indagine quali-quantitativa sui media italiani, europei e internazionali, rispetto allo spazio occupato da questi argomenti sui mezzi di comunicazione di massa. Dal sondaggio curato dalla Swg emerge nettamente che la quota di soggetti che non ricorda alcun conflitto armato degli ultimi cinque anni è aumentata, rispetto alla rilevazione del 2004, di quasi tre punti percentuali (dal 17% al 20%).

Tutto questo nonostante l’utilizzo sempre più massiccio di internet a fini informativi sui conflitti da parte dei più giovani. Sono proprio loro, i maggiori fruitori della rete, a non saper indicare alcuna guerra, in corso o passata, in una percentuale che sfiora addirittura il 30%. Anche l’intensità del ricordo di guerre molto discusse e vicine nel tempo è piuttosto bassa, tanto che, fatta eccezione per i Paesi in cui sono impegnati i militari italiani, le altre nazioni in guerra non superano il 10% delle citazioni.

Il ricordo appare fortemente influenzato dalla vicinanza geografica: Kosovo e territori della ex Jugoslavia sono impressi nella memoria di molti, mentre si registra scarsa traccia dei conflitti che da decenni affliggono diverse regioni dell’Africa o del sud-est asiatico.

Non fa eccezione il dramma del Myanmar, le cui vicende - dalla protesta dei monaci buddisti soffocata nel sangue dal regime militare alla devastante furia del ciclone Nargis - sono già state dimenticate da più della metà degli intervistati, mentre altri hanno confuso le sue sorti con quelle del Tibet.

Nonostante il basso livello d’informazione, l’opinione pubblica italiana ha però sempre chiaramente mostrato di essere contraria ai conflitti armati. Gli italiani rifiutano la guerra in quanto dettata principalmente da ragioni economiche (65%) e politiche (44%) e segnata da cause che hanno poco a che fare con la tutela della sicurezza internazionale (7%). Per la maggioranza degli intervistati si tratta di un fenomeno ingiustificabile, un retaggio del passato da superare attraverso il progresso culturale (76%).

Stando alla ricerca, negli ultimi dieci anni sono diminuiti i conflitti nel mondo (erano 24 all'inizio del 2008), ma in compenso sono aumentati quelli interni ai singoli Stati. Con conseguenze inevitabili per i civili: 573 mila vittime dal 1994 al 2004, soprattutto a causa di forze governative, con un aumento del 500% delle vittime imputabili a terrorismo tra il 1998 (erano 2.346) e il 2006 (12.065).

Ma il dato più eclatante è l'aumento a dismisura (del 900% dagli anni Sessanta a oggi) delle vittime di catastrofi naturali, a causa delle «peggiorate condizioni di vita della metà più povera della popolazione mondiale». Nel 2007 si sono verificati 950 disastri naturali, soprattutto in Asia, il numero più elevato mai registrato, con danni per 70 miliardi di dollari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN GIOCATTOLO PER AMICO, MA E’ ELETTRONICO

 

Un'occhiata ai regali che i bambini della mia famiglia hanno ricevuto per Natale mi provoca lo scoramento. E un supermercato tecnologico, un deposito di telefonini, iPod, videogiochi, play­station. Neanche un libro di favole, neppure un pallone. Perfino l'ultimo nato, che per ora gioca soltanto con le sue manine, dovrà digitare i tasti di un papero giallo per ascoltarne il verso.

Sono aggeggi amati dai genitori al passo con la moda e con i richiami del mercato. Ho provato una vera gioia quando tre miei nipotini sono stati re­cuperati in giardino mentre, per accendere un focherello di foglie, cercava­no di ricavare scintille sfregando dei legnetti.

L'elettronica scartata, nel duplice senso di liberata dalle confezioni e su­bito messa da parte, cedeva il posto a un gioco d'altri tempi. Quelli che si fa­cevano all'aria aperta, nella complicità della crescita. C'erano giochi "da maschi", come ruba bandiera oppure le gare con le biglie; e giochi "da femmine", come Regina reginella e La campana.

Capisco che, alla mia età, la nostalgia è sempre un rischio. Ma mi ha incantata un lungo elenco di giochi di una volta. Si intitola Noi che c'era­vamo..., lo devo alla gentilezza di Luisa Tretto, lettrice di Firenze che me lo ha mandato senza conoscerne l'autore (e se qualche lettore lo conosce, me lo faccia sapere). L'elenco comprende più di 60 giochi, ed eccone alcuni.

 

«Noi che giocavamo a palla avvelenata. Noi che i pattini avevano 4 ruote e si allungavano quando il piede cresceva. Noi che con le 500 lire ci venivano 10 pacchetti di figurine.

Noi che i messaggini li scrivevamo su pezzetti di carta da passare tra i banchi. Noi che suonavamo ai campanelli e poi scappavamo. Noi che nelle foto delle gite facevamo le corna e ridevamo.

Noi che se andavi a giocare in strada non era così pericoloso. Noi che giocavamo a calcio con le pigne. Noi che le pigne ce le tiravamo pure. Noi che mettevamo le carte da gioco con le mollette sui raggi della bicicletta...». Peccato non avere spazio per l'elenco completo, che si conclude così: «Che fortuna esserci stati!».

Questi giochi avevano il vantaggio di tenere insieme i giocatori e in più lasciavano libera la creatività di ognuno. Invece i ragazzini di oggi sono so­li con la playstation e con l'iPod. La loro compagnia è uno schermo grande o piccolo, le emozioni sono artificiali.

Trovano tutto bell'e pronto, non devono mettere in moto la fantasia perché ci ha già pensato il mago giapponese dell'elettronica, inventore al posto loro. Confondono il vero con il virtuale. Così togliamo ai nostri figli l'esperienza della realtà, illudendoli che la vita stia dentro una scatola di microchip.

Come ho anticipato la settimana scorsa, vorrei segnalare una invenzione che mi piace perché è di carta, quindi da leggere. Insegna anche ai piccini come capire i giorni, le stagioni, il legame tra cielo e terra, le armonie tra l'uomo e la natura, con un piglio avventuroso pu­re nelle illustrazioni.

È Il piccolo Barbanera, nuovo calendario dell'Editoriale Campi di Foligno che dal 1762 pubblica il più celebre almanacco d'Italia.

Franca Zambonini

da “Famiglia Cristiana” 1/2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A PROPOSITO DI "RAZZISMO"

Ho sempre pensato come italiano di appartenere a uno dei popoli meno razzisti della terra e questo per motivi storici, culturali, religiosi, eccetera.

Questo non vuol dire che quando accade un episodio gravissimo di violenza, soprattutto da parte di immigrati irregolari, non si alzi un coro di voci per deprecare quanto è avvenuto e per invocare più rigorose misure di sicurezza.

Come dice il Salmo, siamo ben convinti che nei momenti di transizione, quando non sono tenuti saldamente in mano, «emergono i peggiori tra gli uomini» (Sal 12,9). Ma nell’insieme abbiamo una visione degli altri popoli che non avrei esitato a qualificare come non razzista.

Ora tuttavia la mia sicurezza si è incrinata leggendo le interessanti interviste di Rula Jebreal pubblicate sotto il titolo significativo «Divieto di soggiorno». Ecco quanto afferma per esempio un immigrato che pure si può considerare un «caso riuscito» di integrazione, essendo oggi impegnato in politica e con un insegnamento universitario: «Gli italiani provano indifferenza verso tutto ciò che è diverso, hanno una sorta di pigrizia mentale, una mancanza di volontà di comprendere l’immaginario altrui».

Come può questo giudizio andare d’accordo con la scontata affermazione di un altro immigrato riuscito: «Gli italiani sono brava gente. I media, la televisione, continuano a parlare di conflitto tra stranieri e italiani, ma la realtà di tutti i giorni è diversa. Quando hanno a che fare con te direttamente, nel rapporto faccia a faccia, gli italiani si comportano bene, come con un loro pari»?

Probabilmente c’è un po’ di verità in entrambi i giudizi. Ma tutto ciò mette in luce la gravità e l’urgenza del problema affrontato nel libro di Rula Jebreal, cioè quello dell’integrazione ben regolata di milioni di immigrati, oggi e tanto più nel futuro.

Possiamo infatti parlare di un problema minaccioso che si sta affacciando ai confini dell’Europa e rischia di causare una forte divisione, una spaccatura di animi e di intenti. Non v’è luogo, per quanto piccolo e nascosto, che potrà venir risparmiato da questa prova.

Essa consisterà nella nostra capacità di vivere insieme come diversi, non solo di lingua, di cultura, di abitudini, di religione, ma anche differenti nelle sensibilità inconsce, nelle simpatie o antipatie, nel modo di concepire la giornata e la vita…

Qualcosa di simile si è sempre avuto nella storia dell’umanità, ma lo stare gomito a gomito con un numero crescente di “diversi” sta diventando un fatto che sempre più condizionerà la nostra vita quotidiana e il nostro lavoro.

Ad esso si può reagire in vari modi: o deprecando il fatto che non sia ormai possibile fare a meno di chi viene a turbare la nostra quiete e preoccupandosi di stabilirgli delle zone in cui egli ci è utile o addirittura necessario e altre in cui vogliamo essere lasciati in pace; o demonizzando la sua cultura e le sue tradizioni, curando di lasciar entrare tra noi il meno possibile della identità di queste persone.

In ogni caso anche un atteggiamento che possa essere definito “buonista”, ma nasca da uno spirito seccato e un po’ malmostoso, tende a chiudere queste persone in ghetti che a lungo andare diventano pericolosi focolai di malumore e di ribellione. Si prospetta così il fantasma di un “clash of civilations” (scontro di civiltà) che alcuni ritengono far parte di un inevitabile futuro del mondo europeo.

Eppure sono convinto che non solo è possibile e doveroso fare di tutto per evitare questo “scontro di civiltà”, ma che occorre dimostrare che noi cresciamo e maturiamo proprio nel “confronto col diverso”.

Ciò avviene quando esso è visto non soltanto come accettazione necessaria di un fatto inevitabile e neppure come semplice tolleranza e rispetto per le abitudini altrui, purché non siano offensive del bene comune, e neppure come volontà di assimilazione o di conversione.

C’è al di sotto di tutto un dovere reciproco di vivificarci e stimolarci a vicenda vivendo quegli atteggiamenti di rispetto, di gratuità, di non preoccupazione del proprio tornaconto o della propria fama, di accoglienza e perdono, che caratterizzano ad esempio il discorso della montagna di Gesù (Matteo capitoli 5-7) e che sono capiti da tutti e utili a tutti.

C’è poi un discorso ancora preliminare a questo, e il libro di Rula Jebreal ci aiuta a entrare nella dimensione giusta: quella di non giudicare e di non condannare subito, ma anzitutto di ascoltare con simpatia e cercare di comprendere con oggettività l’esperienza e la storia dell’altro.

Questo libro presenta una dozzina di interviste a persone straniere venute in Italia per i più diversi motivi. Alcune sono riuscite a inserirsi con soddisfazione nel nostro tessuto sociale, altre invece hanno fallito.

Particolarmente commovente è la storia della piccola prostituta Olga, che non vede l’ora di ritornare a casa dopo aver sfruttato la situazione e essersi lasciata sfruttare fino alla perdita di ogni senso della dignità umana.

Rula Jebreal scrive come una vera giornalista, che sa raccontare e coinvolgere ma senza inserire le proprie emozioni o forzando il discorso. Ci insegna che occorre soprattutto cercare di capire, ascoltare, comprendere le motivazioni e le situazioni: solo dopo è possibile vedere il da farsi.

Ci auguriamo di essere in molti a capire questa lezione di giornalismo e di vita, così che il peso di questa inevitabile transizione verso una nuova società, quasi un nuovo “meticciato”, diventi non solo più sopportabile per tutti, ma sia fonte di nuove scoperte sulla ricchezza della nostra umanità.

Carlo Maria Martini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A PROPOSITO DI "EMERGENZE"

Ogni giorno, anzi capita più volte al giorno che ci si trovi dentro una situazione in cui si è richiamati ad adeguarsi o a perfezionare i vari sistemi di sicurezza e come strutture, tecnologie, marchingegni vari e come preparazione dei vari responsabili di settore.

Ogni giorno, anzi capita che più volte al giorno che si venga a conoscenza di situazioni di emergenza o si venga allertati per situazioni di tal genere, perché cresca l’attenzione e si approntino le difese adeguate nei confronti dei pericoli più svariati.

Ogni giorno, anzi capita più volte al giorno che ci si trovi di fronte a risultati negativi, a volte terribilmente e irrimediabilmente negativi, a causa di eccessi di ogni genere e ci battiamo o siamo attratti dalla opportunità di porre limitazioni sempre più estese e interventi sempre più mirati, decisi e severi per dissuadere chi agisce così e non essere toccati da quelle conseguenze negative.

Sembra però che, almeno nel sentire comune, ma forse non solo lì, si cammini e si ritenga necessario andare avanti verso l’aumento delle difese dai rischi con sistemi sempre più raffinati, minuziosi ed agguerriti, che tendenzialmente possano eliminare in assoluto ogni benchè minimo pericolo.

Sembra che la tendenza sia a creare una condizione di allarme permanente in un numero sempre più grande di situazioni, semplici o complicate che siano, così da poterle considerare come emergenza e agire di conseguenza. Il cammino sembra orientato verso la normalità dell’emergenza, piuttosto che riconoscere l’emergenza come eccezione nella normalità.

Sembra che la tendenza sia a porre limiti sempre più estesi, per ridurre sempre più le possibilità di esagerazione. Sembra che la tendenza sia a controllare sempre più che questi limiti non vengano oltrepassati e, se c’è trasgressione, la tendenza è ad aumentare sempre più gli interventi di condanna e di pena. L’impressione poi sempre più netta è che si ritenga che il male stia da una parte ed il bene dall’altra e, naturalmente, … il bene è sempre dalla mia parte.

Purtroppo, a volte si ha l’impressione, non so, forse è una mia fissazione sbagliata, che sotto ciò che appare come protezione, come difesa, come allarme pericoli e, soprattutto quando capita qualcosa, come intervento nel tentativo di rimediare ai danni sopraggiunti, interessi molto meno la vita che viene in qualche modo colpita o distrutta, rispetto alla pur giusta e necessaria ricerca del responsabile, del colpevole e per quanto è avvenuto e per quanto non si è fatto e si sarebbe dovuto fare affinché ciò non avvenisse.

E il male è di là ed il bene è di qua; naturalmente dalla mia parte.

Dico questo perché non è poi così raro, ad esempio, che con questo crescere di richieste di controllo, di attenzione alle emergenze, di aumento delle limitazioni per evitare che poi si faccia così e cosà, di aumento delle pene in caso di trasgressione, non è poi così raro che, ed è sotto gli occhi di tutti, saltino fuori delle sorprese abbastanza enormi a danno della sicurezza, della salute e capaci di aumentare non poco il livello del clima di emergenza che si respira.Tutto a dispetto delle varie limitazioni o delle minacce di condanne sempre più pesanti.

Inoltre una persona qualunque può anche pensare: queste trasgressioni sono quelle che emergono; chissà che non ce ne siano altre nascoste! E chissà perché emergono queste e non altre e perché oggi queste e domani quelle, oppure perché queste sempre e quelle mai!

Si può anche aggiungere che mentre da una parte del mondo, molto piccola a dire il vero, o anche solo da una parte di un paese cresce a dismisura questo tipo di attenzioni e di allarmi e, quindi, di comportamenti e di strutture adeguate che li rendano possibili, per cui è sempre … la fine del mondo sia che tiri vento, piova a dirotto o splenda il sole, da un’altra parte, o da tantissime altre parti, questo stesso tipo di attenzioni se proprio non diminuisce, cosa purtroppo frequente, al massimo avanza alla velocità di lumaca … per di più una lumaca stanca!

E chissà che non ci sia un qualche legame di causa effetto tra quel tipo di attenzioni forse un po’ esagerate in quegli angolini della terra e quello in tante e numerose altre parti della nostra bella terra, visto l’enorme giro di interessi di ogni genere, non ultimo quello finanziario, che il crescere di quel tipo di attenzioni si tira dietro.

Se poi oltre a tutto avanzando appunto senza limiti su questa strada in difesa della vita si complica la vita fino metterla a rischio, come a volte capita, allora forse varrebbe la pena andare pure avanti su questa strada ma nello stesso tempo fare qualche riflessione sul senso ultimo di tutto ciò: chissà che non si presenti anche qualche indicazione diversa di lavoro!

Si può fare un esempio un po’ generico e slegato dal contesto, ma che può servire per lasciar intravedere altre possibili strade che possono dar frutto. E’ un piccolo esempio non tanto per dire di eliminare o ridurre le attenzioni alla sicurezza, ma forse per rendere tutto più efficace.

Se una gru è a norma, con tanto di garanzia fornita dalla ditta costruttrice, con tanto di documenti di certificazione tenuti in evidenza, installata da gente con tanta esperienza e manovrata da personale altrettanto qualificato, io, sotto il carico sospeso, non ci sto affatto.

Se per caso, proprio per forza, ci devo proprio stare, perché non ci sono altre soluzioni per continuare il lavoro che è in corso in tempi giusti, non ridotti per guadagnare sul tempo e sui costi, lì sotto ci sto come un gatto, così che prima ancora che l’eventuale pericolo in agguato prenda la decisione di recarmi danno, io sono già infinitamente e  tranquillamente al sicuro e questo per nulla a scapito dell’efficienza nel lavoro.

Ma di stare lì sotto come un gatto, certo lo scelgo io; prima però devono essere diventato un gatto, devo aver curato e devo curare continuamente di esserlo nella maniera più normale ed efficace possibile a me; devo pensare e fare probabilmente con gli altri che vivono con me tutto quanto è necessario per esserlo; devo essermi tenuto e tenermi in allenamento, per essere pronto a saltar via come un gatto, anche perché il gatto ha l’istinto che lo protegge in tali circostanze ed io per niente affatto.

Lo riconosco, come esempio è un po’ scadente, ma può lasciare intravedere strade precise di lavoro che tirano dentro un po’ tutto e tutti.

In più sorgono punti di domanda quando non poche volte, e forse l’ultima è di qualche settimana fa, le stesse persone o enti che si battono per tenere alto il livello di allarme su tanti pericoli ed esigono sempre più norme e queste sempre più esigenti e strumenti sempre più efficaci per il bene dell’uomo, per la salvaguardia del creato, per la sicurezza della vita sono altrettanto decisi, e lo fanno o apertamente o di nascosto e con ancor più ferma determinazione, nel portare avanti ideologie contro la vita, perché ultimamente sono in difesa della propria idea di vita, cosa che spesso coincide con la difesa della propria vita o al massimo della vita della propria categoria di persone.

Fanno sorgere domande anche non poche nostre attenzioni a situazioni di povertà, di sofferenza, di emergenza nel cosiddetto terzo mondo, situazioni scoperte occasionalmente, ed è sicuramente un bene che siano state scoperte, nell’ultimo safari o nell’ultima avventura; hanno colpito profondamente il mio cuore e … tutti devono aiutarmi a placare la mia sete di aiuto a quei poveri malcapitati … per il tempo in cui mi batte il cuore e … , mi raccomando, che non si tocchi più di tanto il mio tran tran quotidiano di lavoro, cibo, vestito, mezzo di trasporto, soldi, tempo libero, relazioni vicine e lontane.

Tutto il clima di critica  sottile, e forse non tanto sottile, per questa aria che tira, suscitato dai pensieri sopra esposti, è per dire a me stesso e a chi vuol ascoltare: non è forse opportuno, infinitamente più efficace, anzi efficace e basta, anche se con risultati a lunga e lunghissima scadenza, riandare a ciò che rende capaci di cercare, vagliare, confrontare e scoprire le vie giuste in tutto ciò che riguarda la vita, tutta la vita e la vita di tutti?

Non è forse opportuno riandare a ciò che di conseguenza rende capaci anche di scoprire, di accorgersi e di difendersi da tutti i pericoli che potrebbero danneggiare la vita, tutta la vita, la vita di tutti, anche quando tentassero solamente di distoglierci da quelle giuste vie che onestamente e a fatica siamo stati capaci di scoprire o abbiamo saputo accogliere come dono da Chi si è mostrato capace di conoscere, possedere e donare il segreto della vita?

Non si deve certo tralasciare nulla di quanto si fa onestamente su altre strade per la sicurezza nella vita, per farsi carico delle emergenze, per ridurre la cause degli inconvenienti. Forse però vale la pena curare la formazione della persona a questo riguardo, curare la formazione della mia persona, lasciarmi formare, aiutare chi mi sta vicino, soprattutto se ne ho una responsabilità, a formarsi come persona, a lasciarsi formare a livello profondo. Forse vale la pena curare questo sempre e per sempre.

Vale la pena investire su questa formazione, lavorando oggi per domani, anzi per dopodomani. Questa formazione di sé e degli altri e con gli altri è un po’ scomoda, perché esige una ricerca onesta della verità, della verità sulla persona umana che non può non rimandare a Dio, anche solo alla sua ricerca, e di qui si passa poi al cammino verso la verità delle relazioni, della storia, del senso ultimo della vita.

Vale la pena lavorare su di sé con testarda perseveranza, con la preziosa ed indispensabile umiltà di chi riconosce che forse la verità, nella sua pienezza, può essere solo ricevuta dal di fuori e che non è più tale qualora se ne diventasse padroni. E come è facile cedere alla tentazione di diventarne padroni, magari proprio mentre ci si presenta come suoi difensori o quando addirittura si è riconosciuti come tali dagli altri, ma si è persa completamente quella benedetta e indispensabile umiltà.

Vale la pena lavorare da sempre e per sempre, consapevoli della istintiva e continua tendenza a manipolare tutto e tutti, verità compresa.

Forse, forse, … quanti forse! Forse perché anche con questi pensieri si può sottilmente diventare presuntuosi padroni della verità

Vale la pena rimanere attenti, disposti a riconoscere l’errore, a riparare i danni, a rimettersi in carreggiata e riprendere il lavoro.

Investire in questa formazione tocca, e quanto tocca, e trasforma la vita, perché fa fiorire delle persone, delle libertà, uomini e donne capaci di stare in piedi da soli, sostenuti, guidati, modellati dalla verità conosciuta per nome nella persona di Dio o ricercata faticosamente ma sinceramente e intensamente, come un assetato l’acqua della sorgente,  nella cura della rettitudine della propria coscienza.

Non è che il primo aiuto efficace al progresso della vita ed il primo, indispensabile strumento per difender la vita, tutta la vita, la vita di tutti sia forse quello di scoprire, accogliere e far crescere i doni che ci ritroviamo nella nostra persona e che, io lo so, il Signore ha posto nelle mani di ciascuno di noi.

Tale  cammino ci rende svegli, sotto ogni aspetto, per sgangherati e acciaccati che siamo, ci dà strumenti per far fiorire la vita, tutta la vita, la vita di tutti, ma anche per proteggerla da tutto e da tutti. Sono strumenti infinitamente più efficaci di norme, leggi, avvisi di pericolo, strumenti di prevenzione di protezione e di castighi per le trasgressioni, anche se non li escludono per niente.

Senza quel cammino, tutto il resto serve a ben poco, anzi … tutto dovrebbe essere pensato e orientato a curare, far crescere e difendere questo cammino da ogni attacco palese o nascosto e subdolo che sia.

Quale dovere per me prete di crescere ed educare a questo cammino!

Quanta bella responsabilità per me prete se dovessi sciupare tutto il cammino di attenzione alla formazione umana soprattutto se lo faccio anche solo per scopi in sé buoni: Immaginarsi che responsabilità se lo faccio per scopi passabili o peggio ancora!

Ancora una volta forse vale la pena ripetere quanto la fede, quella vera, faccia fiorire capacità, abilità, freschezza … altro che quella dei gatti! E quanto, d’altra parte, è indispensabile questa ricchezza umana perché possa attecchire e fiorire una fede vera!

Questo può assomigliare al cane che si morde la coda: invece basta partire, da dove ci si trova, anche solo con un piccolo passo, appena si intuisce la meta e si decide di raggiungerla.

All’inizio di un nuovo anno pastorale o sociale, che dir si voglia, come sarebbe bello e utile che ci si confrontasse come persone, come uomini e donne di buona volontà, come credenti e si decidesse di lavorare o di continuare a lavorare in questa direzione per garantire certo in assoluto la sicurezza, per far fronte a tutte le situazioni di emergenza, per ridurre a zero le esagerazioni dannose, ma soprattutto per poter vivere, per vivere tutti, per vivere in pienezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A PROPOSITO DI LAVAVETRI

da "Famiglia Cristiana" n. 36/2007

 

"SINDACI SCERIFFI",

CACCIA AI LAVAVETRI E I VERI PROBLEMI DELLE CITTÀ

PERCHÉ SOLO AI SEMAFORI LA "TOLLERANZA ZERO"?
 

C’è una grande crisi della politica. Non è solo il Parlamento sostituito dai talk show serali come luogo delle decisioni. Dura da anni, è acuita dal rimescolamento che accompagna la nascita di un soggetto politico nuovo, con contraccolpi su tutto lo scenario. Senza regole certe, nemmeno elettorali, è iniziata una lunghissima campagna elettorale da due anni. I sindaci, finora, in Italia hanno rappresentato un punto fermo, simboli amati o contestati, ma almeno qualcosa di chiaro: il governo delle città.

C’è stato uno slittamento culturale nel discorso pubblico. Il linguaggio con cui immigrati, romeni, zingari vengono oggi descritti solo cinque anni fa faceva inorridire per volgarità, ignoranza, intolleranza implicita o esplicita. Ora si è deciso di sdoganare questi "fastidi urbani" e farli diventare "diritto alla sicurezza" dei cittadini. Per questo la storia dei "sindaci sceriffi" e della criminalizzazione dei lavavetri è un sintomo, in questa crisi della politica.

La politica "muscolare" è quasi sempre un segnale di impotenza e assenza di coraggio nel risolvere i problemi veri. Con voce grossa si dice: quello che tutti sbandierano, la lotta alla microcriminalità, noi lo sappiamo fare. E meglio di tutti: denunciamo persino i lavavetri. È difficile resistere quando i sondaggi dicono che c’è consenso, che si crea consenso. Strano: quando maggioranze invocano la pena di morte in America diciamo che è un orrore, quando sale un clima di insofferenza in casa nostra diciamo che va capito e la politica lo legittima.

Le città, soprattutto le più belle, sono piene di problemi. Migliaia di scritte deturpanti, occupazione abusiva e "privatizzazione" del suolo pubblico hanno trasformato piazze fantastiche in trattorie e fast food a cielo aperto, sono spariti i marciapiedi per gli abitanti, creando problemi in particolare per gli anziani.

Il traffico, i taxi che non si trovano, doppie e triple file di auto esentate dalle multe per misteriosi motivi, bottiglie ovunque, aggressività da alcol e da notti bianche permanenti. E poi rumore, venditori, rinascita delle baracche perché un mercato di case accessibili non c’è, milioni di escrementi di cani e cani senza museruola, cocaina nell’aria, in discoteca e negli hotel dei politici, e aumenti a dismisura di aggressività e pericolosità di persone comuni.

Illegalità diffusa e nessuna certezza delle sanzioni. I sindaci dovrebbero fare il catasto degli incendi per evitare la speculazione, ma non lo fanno. Non è sicurezza?

Invece, si usa l’articolo 650 del Codice penale per denunciare i lavavetri, anche se non c’è nessun reato, né per l’igiene, né per la sicurezza, né per la giustizia. Sicuramente scritte dei writers, occupazione dei tavolini fino a metà strada ed escrementi dei cani vanno più in là nel compromettere igiene e sicurezza.

Ma la "tolleranza zero" è solo con i lavavetri. Non c’entra nulla con la lotta alla microcriminalità. Se esiste un racket (negato da venti Procure), si colpiscano i padroni del racket e non gli sfruttati. Alle vittime si dia il permesso di soggiorno per aiutarli a denunciare gli sfruttatori, per uscire dalla schiavitù. Si regolarizzino e gli si dia la possibilità di lavorare (bene, registrati, con tesserino) magari anche ai semafori, se non si sa offrire altro.

La sicurezza non è né di destra né di sinistra. Se la legalità è "selettiva", però, è inquietante. È un brutto segnale quando si inseguono gli umori della folla e i sondaggi, perché si smette di essere classe dirigente. Parlare alla pancia non risolve mai i problemi. Le soluzioni vere, come la sicurezza, si allontanano.

Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da "La Pietra"

Lettera di un giovane detenuto

Ai giovani volontari.

Ciao cari amici, mi chiamo M.J. e ho partecipato alla visita che voi avete fatto a questo istituto in particolare mi è piaciuto molto gli scambi di idee che abbiamo fatto.

Nella mia presentazione forse non ho parlato, perché sono straniero (brasiliano), e sono anche un po' timido nel parlare con la gente; ma comunque io vorrei che sappiate che per me è stato molto bello; vorrei che voi sappiate che io non faccio colloquio con nessuno perché i miei genitori e parenti sono tutti in Brasile; e per me qualsiasi contatto con le persone che vengono da fuori da queste strutture, come voi, per me è un motivo di gioia; non conosco niente dell'Italia e sapere qualche cosa direttamente da voi mi fa molto piacere.

Quel giorno alcuni di noi abbiamo chiesto che cosa pensavate di noi detenuti; voi siete stati sinceri nel dire la realtà, perché anch'io prima di conoscere il carcere avevo un'immagine differente; però vi auguro a tutti voi che non abbiate modo di conoscerlo come detenuti; è meglio che sia come volontari.

Qui abbiamo molto bisogno di persone come voi e io vi posso assicurare che noi detenuti siamo come tutti gli altri, siamo esseri normali. Certamente si trova di tutto come in tutte le parti, buoni e cattivi si trova qui come fuori. Da parte mia è importante ogni tanto, quando potete, scambiare due parole con le persone che sceglieranno per fare i volontari in questo Istituto.

Aspetto di sapere che impressione avete avuto di noi in quella visita che avete fatto, se è stata per voi gradevole. Amici, in questo mondo di oggi dove ci sono tante guerre, odio, distruzione, dove le nazioni più potenti vogliono prevaricare sui più deboli, ammazzano tanti innocenti e non vogliono ascoltare le parole del Santo Padre.

Io sto cercando di trasmettervi una mia parola di pensiero e amicizia. Spero che voi possiate riflettere su tutte queste cose che succedono nel nostro mondo, allora non mollate, fatevi sentire perché noi abbiamo bisogno davvero di voi, mi dispiace non sapere esprimermi e scrivere bene la vostra lingua, ma questi pensieri sono usciti dal mio cuore.

Per me che ho appena visto voi solamente per tre ore, ho ammirato molto il vostro interesse a conoscere le idee di noi detenuti. Aspetto dal profondo del mio cuore di trovarci ancora, e chi lo sa che io possa raccontare qualcosa su di me, sulla mia vita, che è sempre stata normale come quella di ognuno di voi, fino a quando ho fatto un grande sbaglio. Però non volevo fare male a nessuno, io in Brasile ho un figlio, nel mio paese esiste molta povertà e per trovare un lavoro risulta molto difficile.

Ho sempre fiducia in Dio e vivo sperando e sognando di tornare ad abbracciare mio figlio che è la ragione della mia vita, per me è tutto, ogni giorno prego Dio che mi dia la forza di superare questo sbaglio e che un giorno possa tornare ad essere una persona libera e normale.Vorrei tanto essere una persona migliore e certamente non sbagliare più, cercando di insegnare a mio figlio di non commettere errori come il mio, mi dispiace stare raccontando solo di me, vorrei sapere qualcosa anche su di voi, ok!

Per me è indimenticabile aver passato quelle ore insieme a voi, ascoltare le cose che avete parlato mi ha fatto ragionare quanto è bello avere un cuore, che pensa e che ama, ho scoperto che Dio mi ha dato un cuore per amare, per perdonare, per piangere e sorridere, grazie a voi. 

Adesso vorrei che il mio cuore possa maturare e che io capisca ancor di più che Dio ci dà la possibilità di scegliere un cammino per fare del bene, perché alla fine il mio cuore non è mio, ma di Dio. Comunque andrà la mia vita, vorrei un domani poter fare qualcosa di buono nel mio paese. Ancora un grazie per essere venuti. Vi aspetto presto, ci rivedremo, non vi dimentico e soprattutto non dimenticatemi. Saluti a tutti. M..J. Ciao…